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May 23, 2014

Tatiana e Trouvé. L’artista e il suo doppio in mostra a Museion

Anna Quinz
Da sabato 24 maggio (vernissage oggi venerdì 23 maggio) in mostra a Museion la prima mostra personale italiana dell'artista Tatiana Trouvé. Che "occupa" il quarto piano del museo bolzanino con i suoi fantasmi, i sogni, le memorie, gli immaginari. E i raddoppi che fanno domande e lasciano aperte le porte a molteplici risposte.

Incontro Tatiana Trouvé al quarto piano di Museion, spazio che da stasera sarà “pacificamente occupato” dalle sue opere in mostra fino al 7 settembre. Come spesso fanno gli artisti Trouvé veste di nero, ma a colpirmi sono le coloratissime Birkenstock arancioni con suola viola a contrasto che indossa. Oltre al dettaglio delle scarpe – che sono peraltro elemento e oggetto che spesso entra nelle sue opere – mi colpisce il suo modo di parlare, con un accento morbido e curioso, che sa di Francia e di terre lontane.
Per la prima volta in Italia, sua patria di origina, con una mostra personale, l’artista si racconta volentieri e così l’intervista scorre fluida e “facile”, molto più di quanto spesso succeda. E poterla ascoltare mentre parla del suo lavoro è un privilegio prezioso. Un po’ perché osservare un’opera attraverso il filtro e lo sguardo diretto del suo autore è sempre cosa bella, un po’ perché capirne le motivazioni e i sentimenti che stanno dietro mi permette di vedere con occhi diversi quel che mi accoglie in questo quarto piano immenso, grandioso, apparentemente dispersivo. 
La mostra si intitola “I tempi doppi” e il doppio è un tema che entra prepotente nel lavoro della Trouvé. “Nulla è come sembra”, recita la presentazione della mostra, ed è assolutamente vero. Ogni opera esposta va osservata con attenzione, con occhi capaci di guardare dietro la superficie e l’apparenza. Tutto è se stesso e il suo doppio, tutto è intriso di sogno, di immaginari da trovare e leggere in modo personale, di presenze altre che si nascondono tra ciò che è prevedibile e ciò che non lo è. Inutile descrivere i singoli “oggetti” in mostra, inutile dare definizioni. Quel che conta è salire al quarto piano di Museion e lasciarsi trascinare dalle esperienze che lo spazio, così occupato, possono generare. 
Però, visto che il privilegio di incontrare Tatiana e di sentirla raccontare io l’ho avuto, lo condivido con piacere con tutti voi. Fate come se la sentiste parlare, con il suo accento morbido e curioso, che sa di Francia e di terre lontane.

3Buongiorno Tatiana. Partiamo dall’inizio. Mi può raccontare della nascita del progetto di mostra a Museion?

La mostra è nata da una collaborazione con un’altra mia mostra, dallo stesso titolo, al museo di Bonn. Qui a Museion ci sono alcuni lavori che arrivano da lì, altri invece no. La cosa molto diversa rispetto a Bonn è che lì c’’era un percorso particolare, con sdoppiamenti di sale e di opere. Qui invece l’allestimento è stato pensato in relazione alla particolarità del museo e del suo quarto piano: da un lato la vista incredibile sulle montagne e dall’altro il paesaggio sì montano, ma anche un po’ più cittadino. Per me c’era come un’eco con un punto di vista molto romantico, quasi di una pittura di Caspar David Friedrich. Da una parte l’idea dell’individuo, solo davanti all’immensità dell’universo e dall’altra il mio lavoro dove l’individuo è di fronte all’immensità di diversi spazi paralleli. Perciò in tutto il progetto, c’è stato anche un gioco sull’architettura e sul punto di vista del museo e dello spettatore nella sua visita.

Dunque, per lei è stato stimolante lavorare qui, su e con questo spazio espositivo di certo inusuale e decisamente non semplice…
Assolutamente. È stato qualcosa di abbastanza unico per me. Di solito costruisco sempre delle parcelle più chiuse. C’è normalmente un lato più labirintico nel mio lavoro, mentre qui tutte le opere sono aperte nello e allo spazio.

4Un tema centrale della mostra è quello del “doppio”, presente nel titolo che riprende a sua volta il nome di uno dei suoi lavori “I tempi doppi”, appunto. Letizia Ragaglia, direttrice di Museion, nel presentare questo concetto ha fatto riferimento al celebre “gioco di sdoppiamento” dell’artista Alighiero Boetti che si autodefinì “Alighiero e Boetti”. Dunque, mi viene da chiederle, chi è Tatiana e chi è Trouvé?
Forse c’è una Tatiana diurna e una notturna. C’è un lato del mio lavoro molto visibile, più solare e un altro che forse è più notturno, come qualcosa di legato all’immaginario e al fantastico. L’altro lato invece è più legato a qualcosa di concettuale e concreto, più razionale.

Lei è nata in Italia, è cresciuta in Senegal, vive in Francia. Cosa porta, nel suo lavoro, di questo suo mix culturale e geografico?
I cento titoli [uno dei lavori mostra, costituita da due valige di bronzo corredate da cento targhette, dove al posto del nome del proprietario sono apposti cento titoli, a partire dal 1968 anno di nascita dell’artista, il titolo del lavoro cambierà ogni anno per cento anni. Ndr]. Sono dei bagagli, delle valige di esperienze. C’è stata in mezzo anche l’Olanda. È difficile poterlo esprimere in modo chiaro e dire “porto questo dall’Africa, questo dalla Francia”… penso che sia soprattutto la somma di tutte queste esperienze ad essere presente nel mio lavoro.

Altro tema affrontato dalla mostra è quello del “fantasma”. Dicono di lei “L’artista ha una predilezione per situazioni che lasciano spazio all’immaginario e alla narrazione, che sono cariche di fantasmi fino a sconfinare in dimensioni misteriose e inquietanti. Nelle sue installazioni, che nascono in stretta relazione con l’ambiente espositivo, Trouvé coinvolge il visitatore in uno spazio enigmatico dove i confini fra il reale, l’immaginario e l’illusorio si confondono”. Può spiegarmi?  
Il fantasma penso sia l’idea di una presenza, qualche elemento come le scarpe poggiate da un lato. L’idea è che questi spazi che propongo siano percorsi o siano stati percorsi da delle presenze, da altri individui o ipotetici spettatori che però non ci sono più. C’è forse anche l’idea che alcune cose sono stata fabbricate e messe lì da altre persone che hanno abbandonato e lasciato vuoti i luoghi. E forse in questo c’è il richiamo al fantasma, a una dimensione e una serie di attività che sono sparite, ma delle quali riusciamo ancora a percepire una presenza.

Lei ama parlare di sé e del suo lavoro. Non è così per tutto gli artisti, che a volte invece sono più schivi. Concludo che i “modi” di essere artisti sono tanti e diversi. Lei che artista è? E come si svolge il suo lavoro? Più di ricerca e intellettuale? Più pratico e manuale?
Io penso che sia una questione di forma del contenuto sedimentato. L’artista inventa delle forme. Anche John Cage, anche se era un artista concettuale, inventava delle forme del suono e della musica. Perciò io non separo mai l’intelletto dal fare. Parto sempre da delle intuizioni che poi sviluppo e che cerco di capire. Quando le capisco, colgo qualcosa che mi stimola per continuare, mentre altre volte sono vie senza uscita. Mi piace parlare, perché mi piace raccontare storie. Forse qui esce il mio lato africano di griots, quello di una cultura fortemente orale dove si trasmette molto attraverso la parola. Mi piace trasmettere il mio lavoro in questa maniera. Non penso sia l’essenziale, né la cosa che lo faccia esistere, ma quando sono vicina al mio lavoro e mi si chiede di parlarne, lo faccio con piacere.

1Non tutti però hanno la fortuna di sentirla parlare del suo lavoro… Cosa pensa e spera che lo spettatore riceva dalle sue opere, se non può ascoltare il suo racconto?
È un’ottima domanda, perché è molto difficile poter pensare al posto delle persone. Ma io penso che il visitatore – anche il visitatore che non conosce nulla di arte contemporanea – che si trovi davanti a un’opera molto barocca o simbolica o del tutto concettuale, possa farne un’esperienza. Penso che quando le cose sono fatte in maniera sincera e densa, permettano in tutti i casi di percepire qualcosa, anche se non se ne fa una lettura storica, intellettuale o critica. Si ha sempre la percezione e si fa sempre esperienza delle cose che ci vengono presentate. Mi sono accadute cose molto strane, anche con il mio lavoro. Una volta ho sorpreso dei visitatori che – davanti a una mia installazione dove c’erano diverse scarpe in bronzo all’entrata della sala – si sono tolti le scarpe e hanno continuato a visitare il museo a piedi nudi. Per cui ci sono maniere molto diverse di percepire un lavoro, quei visitatori forse avevano creduto che erano scarpe vere e che bisognasse togliere le proprie per procedere nella visita. Altre persone, forse più attente e sperimentate sulla materialità dell’opera, hanno visto subito che era bronzo. Ma mi sono detta, in fin dei conti, visitare una mostra a piedi nudi è comunque un’esperienza. Sono tanti livelli approcci e maniere per entrare in contatto con un’opera. Non ne esiste una giusta. C’è una bella frase che dice che l’opera è qualcosa che è lì, che si prende se si ha voglia di prenderla e che si lascia se si ha voglia di lasciarla. E anche lasciare qualcosa, non coglierla, fa parte comunque di un’esperienza. 

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