Culture + Arts > Cinema

May 10, 2014

Roberta da Soller, “Piccola Patria” e la poesia che può nascondersi nel vivere in provincia

Anna Quinz
Al Filmclub di Bolzano in questi giorni, "Piccola Patria", un film di Alessandro Rossetto che racconta la provincia italiana e le piccole comunità che la caratterizzano e dalla quale spesso i più giovani desiderano fuggire. Abbiamo intervista Roberta Da Soller, una delle giovani protagoniste del film.

Piccola Patria” è la storia di Luisa e Renata, due ragazze unite dal desiderio di andare via da un piccolo paese di provincia che le ha cresciute, tra feste di paese e raduni indipendentisti, famiglie sfinite e nuove generazioni di migranti presi di mira da chi si sente sempre minacciato. “Piccola Patria” è un piccolo bellissimo film diretto da Alessandro Rossetto, che racconta una storia nella quale in tanti potremmo ritrovarci. E forse proprio per questo, ha già in pochi mesi dala sua uscita, ottenuto tanti successi. Presentato alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti e in prima internazionale al Festival di Rotterdam 2014 (nella sezione Spectrum dedicata a “film e registi che offrono un contributo essenziale alla cultura cinematografica internazionale”), il l film è anche in concorso nel New Talent Gran Prix del Copenaghen International Film Festival 2014.
Il film ha avuto il sostegno della BLS, una parte delle riprese sono state fatte a Bolzano, anche in collaborazione con la Zelig. Il direttore della fotografia  è il meranese Daniel Mazza e molti componenti della troupe sono altoatesini e allievi o ex allievi della Zelig.
Una delle protagoniste del film, Renata, è interpretata da Roberta Da Soller, che abbiamo intercettato e intervistato per voi.

Ciao Roberta, innanzitutto, ti chiederei di presentarti. Chi sei, cosa fai?
“Chi sei cosa fai” sono domande esistenziali alle quali ho difficoltà a rispondere, è complicato darsi una rappresentazione del sé. Ci provo. Parto dalle cose che mi piacciono e che forse parlano meglio… Mi appassionano molte cose e alcune di queste ho avuto la fortuna che diventassero anche un lavoro. Così ho fatto l’organizzatrice teatrale, l’attrice, la performer, la direttrice di palcoscenico, la cameriera per sopperire all’intermittenza e a tempo perso studio al Dams. Gestisco assieme a un gruppo di attivisti uno spazio indipendente per l’arte contemporanea che si chiama S.a.L.E. Docks a Venezia. In questo luogo la mia passione per il teatro è diventa polimorfa e le persone che lo tengono vivo sono una delle cause della mia prolifica inquietudine. Ho studiato all’università lingue e in una scuola recitazione, ma hanno avuto molto poco peso nelle mie scelte se non per capire cosa non mi interessava fare.

3Parliamo di Piccola patria. Come ci sei arrivata, che progetto è stato per te? Segni indelebili che ti ha lasciato addosso?Parto dalla fine, d’indelebile mi è rimasto l’accento veneto che prima di conoscere Alessandro Rossetto mi ero completamente tolta. Poi rimangono i rapporti che si sono costruiti in quei mesi di lavoro e anche tutto quello che si è fatto è stato fondamentale bagaglio attraverso cui ripensare al lavoro attoriale. Sono arrivata a fare il provino per Piccola Patria tramite un amico attore Stefano Scandaletti, che mi chiese più volte a distanza di mesi di provarci. Lo feci ma senza speranze, ero impegnata in altro ed era da un po’ che avevo accantonato l’idea di fare l’attrice. Ma credo che per il tipo di lavoro che aveva in testa Alessandro, il fatto di essermi presentata senza molte aspettative, con l’aria di chi non ha nulla da perdere, possa invece aver fatto un buon effetto. Piccola Patria è il progetto di Alessandro, un progetto che lui è subito riuscito a far sentire di tutti e dentro a questo sentire comune si è sviluppato il lavoro di ognuno di noi. Per me più che un progetto è stato un modo inaspettato, intenso ed extra ordinario di girare un film sul territorio in cui quasi tutti gli attori sono come minimo cresciuti. Una continua e ostinata ricerca di un inconscio collettivo, di una dimensione primaria che potesse dare forma e sostanza alle nostre parole e al nostro muoverci nei luoghi che attraversavamo. Una ricerca linguistica, non filologica, una sorta di cavo ad alta tensione che immediatamente ci ha collegati a una dimensione archetipica.

Ritrovarsi sul red carpet di Venezia, non deve essere cosa da poco. Ci racconti l’esperienza? Oltre a questa, altre soddisfazioni del tour del film?
Il Red Carpet si fa in dieci secondi, credo che l’emozione lì sia stata la sala da 1200 posti totalmente piena e capire a fine proiezione che il film piaceva davvero molto. Solo in quel momento riesci a mollare la tensione e sentire che si è stati credibili, convincenti ed emozionanti. E da lì iniziano un po’ di soddisfazioni. Un’altra grande soddisfazione che il film ha portato è questo connubio riuscitissimo fra Maria Roveran, Marco Guazzone e gli STAG che con le musiche di Piccola Patria hanno dato vita a un concerto travolgente che ha accompagnato l’uscita del film nelle varie città il mese scorso. Un concerto che probabilmente ritroveremo ancora in qualche festival durante l’estate. Teneteli d’occhio, sono davvero forti!

Perché secondo te questo film ha avuto così tanta risonanza?
Perché è bello e basta. Non sono una critica cinematografica, sono inoltre di parte, ma è indiscutibilmente un film speciale, uno spaccato senza tanti compromessi, porta ai minimi termini segni che si riconoscono a fatica in altre storie, lo fa caricando oltre misura di tratti esacerbati i protagonisti, allo stesso tempo lo fa andando totalmente contro le classiche forme narrative seguendo un andamento che è molto più simile a quello della vita, dove le vicende non si consumano mai in un crescendo epico ma si dispiegano così, con tempi indefinibili che sono quelli dell’animo umano. E da questo flusso continuo di esasperazione e sospensioni di persone e storie, è inevitabile non esserne rapiti.

4Leggo nella presentazione del film “Entrambe [le protagoniste del film] vogliono lasciare la piccola comunità che le ha cresciute, tra feste di paese e raduni indipendentisti, famiglie sfinite e nuove generazioni di migranti presi di mira da chi si sente sempre minacciato”. Tu che di certo hai viaggiato nel mondo, partendo dalla provincia, come hai vissuto questa storia di fuga e come pensi che le piccole comunità italiane influenzino la nostra vita, nel bene e nel male. O almeno la tua?
Le piccole comunità in generale sono una lama a doppio taglio, dipende molto anche da chi sei e cosa vuoi per tornare alla tua domanda iniziale. Possono essere dei posti accoglienti e sicuri se cerchi quel tipo di tranquillità e pace dal resto del mondo. Ma anche senza porti molte domande se a un certo punto senti che tutto quello che potevi fare e provare e vivere è già stato dato, se senti che la pace è insopportabile, è il momento di andarsene o almeno di pianificarlo. Per me è sempre stato così, pacificarmi in una situazione significava che mi arrendevo a qualcosa e che quindi qualcos’altro avrebbe deciso per me, e questa cosa è insopportabile tutt’ora. Non sogno di abbandonare i luoghi dove vivo, Venezia, ma ho abbandonato il mio paese d’origine per poter studiare e allontanarmi da una condizione culturale che non avrebbe potuto soddisfare le miei inquietudini, mi piace viaggiare e anche sostare in altri luoghi per dei periodi, ma non voglio lasciare il Veneto, quando si acquisisce uno sguardo aperto e la possibilità ogni tanto di sterzare, anche il vivere in provincia diventa poetico. Ma questa è una condizione che conquisti con l’indipendenza e la libertà di poter scegliere e non sempre si ha questa possibilità, o perché le condizioni di vita non te lo permettono o perché sei troppo piccola, e in ogni caso, l’inferno un po’ lo tocchi.

Tags

Print

Like + Share

Comments

Current day month ye@r *

Discussion+

There are no comments for this article.