Welcome to Israel #06

A Tel Aviv, il principale mercato ortofrutticolo è il Carmel Market, che nel venerdì in cui lo visito si arricchisce dell’apporto di artigianato artistico locale. Facendo un giro tra le bancarelle – che accettano quasi tutte le carte di credito, per dire i prezzi… – si scoprono splendidi gioielli e manufatti artistici, da bambole a sculture.
Lungo la trafficatissima Allenby Street non mancano i caffè e ristoranti per mangiare bene, anche all’imbocco di Bialik Street, una stradina forse poco conosciuta ma che in realtà, oltre a offrire a sua volta un buon esempio della presenza, in città, dell’influsso Bauhaus, riunisce alcuni musei piccoli se non piccolissimi (come il museo dedicato appunto al Bauhaus, una stanza e due mobili), l’ex municipio e il conservatorio della città.
Lo scorcio del mare, all’incrocio con Tchernikhovski, ricorda che questa metropoli tanto cosmopolita e caotica solo un chilometro più in là sembra una località di villeggiatura.
All’aria condizionata dell’Helena Rubinstein Pavilion for Contemporary Art – piccolo distaccamento contemporaneo del Tel Aviv Museum of Art, che in questo momento ospita una mostra dedicata alle opere (ritratti, dipinti, sculture, video) di Gabriel Klasmer – cerco sollievo dal caldo soffocante sceso oggi sulla città. Faccio fatica a immaginare come si possa resistere qui al caldo dell’estate.
Sempre in cerca di refrigerio mi sposto oltre, verso la Cinematheek, il cui sito web, a dire il vero, è stato impossibile consultare perché scritto solo ed esclusivamente in ebraico. Fiduciosa di trovare qualche film almeno con sottotitoli in inglese mi ci catapulto e non rimango delusa, con la programmazione di diversi film in francese, inglese e tedesco. Scelgo, come spesso faccio, il primo film che inizia, un film francese.
Dalla sala esce un gruppo di gente che ha assistito, mi spiega un signore, a un film sull’Olocausto con presente la regista che ha incontrato alcuni superstiti; tra i trailer in ebraico prima della proiezione del film scopro una commedia che parla del servizio militare che tutti (i ragazzi per tre anni, dai 18 ai 21, le ragazze per due anni, fino ai 20) sono costretti a fare; nella sala accanto danno due film tedeschi sulla guerra.
Israele mi ricorda, per molti versi, l’Alto Adige. Certo non per il paesaggio né per la lingua, non per il cibo né per la temperatura. Da un lato, però, è piuttosto autoreferenziale e centrato sempre sulle proprie questioni, proprio come l’Alto Adige. Dall’altro colpisce la convivenza tra i popoli – e gli arabi in Israele sono molti più di quanto ci si possa immaginare. Mentre entravamo a Gerusalemme, Tamar, la vispa signora ottantenne che ci faceva da guida, spiegava convinta che loro, gli israeliani, mica avevano mandato via gli arabi da Gerusalemme!, e addirittura gli arabi avevano le loro scuole e potevano studiare in arabo imparando l’ebraico a scuola. Ah! – quasi salto in piedi – e quindi anche nelle scuole ebraiche si impara l’arabo a scuola?, ho chiesto, come fosse ovvio che il modello altoatesino fosse esportabile ovunque. La signora mi ha risposto con un no secco che la diceva lunga.
Israele è un luogo speciale: dal misticismo di Gerusalemme, passando per le bellezze naturalistiche, all’occidentalissima Tel Aviv, dove il tempo è magnifico, il cibo ottimo, la gente splendida, aperta, accogliente, se solo la si avvicina. Ma Israele ha una storia particolare, e anche solo a citarla, la “storia di Israele”, c’è da tenersi saldamente stretti a una sedia, con gli inevitabili schieramenti che sempre seguono. E non è uno stato laico – che poi, l’Italia lo è davvero? – per cui impone ad esempio lo Shabbat al mondo intero, bloccando mezzi di trasporto pubblici e addirittura, a Gerusalemme, ogni attività di qualsiasi genere, senza lasciare al singolo la scelta se rispettarlo o meno; è un luogo in cui è impossibile prescindere da una storia violenta – come lo è però la storia di tanti popoli – per cui quasi tutti gli israeliani che incontri oggi hanno un qualche parente morto nell’Olocausto o in un’altra guerra più recente. Del resto, mi racconta un amico del posto che definirei laico, anche essere israeliani non è semplicissimo. In uno stato di 8 milioni di persone c’è un’enorme pressione sociale sulla famiglia. Bisogna sposarsi, certo, ma bisogna soprattutto fare figli, almeno tre. Poi si può divorziare o fare altre scelte, ma l’importante è avere procreato. L’imposizione fiscale supera il 50 percento. Gli obblighi sociali sono molti.
A fare il fascino di questa terra, oltre alla sua storia millenaria, sono proprio i contrasti tra una religiosità imprescindibile e una laicità cosmopolita occidentale, il tutto condito dalle tante diverse culture nazionali che qui sono confluite, come si sente dalle lingue parlate per strada.
“Questo paese è così bello che mi chiedo come mai non ci siano molti più turisti” mi chiede un amico. Prova ad attribuirlo al marketing, ma anche lui sa che non è quello. È proprio che quei confini con il mondo – che i controlli dell’immigrazione ti fanno superare a fatica, sia in entrata, sia in uscita – sono ancora molto grandi.