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April 24, 2014

Welcome to Israel #01

Cristina Vezzaro

Il mio arrivo a Tel Aviv ricorda molti arrivi in cui già quando sei sul finger che porta al terminal ti rendi conto che fa un caldo cane e dalla primavera pur calda di quest’anno e dall’aria condizionata di aeroporti e aerei ti ritrovi in un altro mondo.

Quando in quest’altro mondo di una città in cui non sei mai stata ti fanno trovare una bottiglia di vino nell’appartamento che ti ospiterà, ti ci vuole poco, però, per sentirti a casa.

Certo le differenze culturali ci sono e si fanno notare. Se non ci sei mai stato prima, in Israele, non sai ad esempio che l’ascensore di sinistra segue lo Shabbat e non risponde al comando che tu ostini a provare a dargli fino a rinunciarci e tornare con la valigia sul pianerottolo dopo esserti fatta tutti i piani di casa (tranne il tuo): se durante lo Shabbat non si può fare nulla, non si deve nemmeno premere il pulsante dell’ascensore, è questa l’idea. Quello di destra, invece, funziona e in casa ci arrivi.

Il problema di avere una casa troppo accogliente è che quasi quasi ti impigrisci. Ti sistemi, fai come fossi a casa tua ma non sei a casa tua e te la godi ancora di più. Mi era già successo a Buenos Aires, che quando trovi un nido dove i pensieri volano e il corpo riposa, tutto il resto è fin troppo.

Poi però alla fine esci, e con la scusa che è Shabbat e che ci sono 32° puoi fiondarti subito in uno dei pochi musei aperti di sabato. Il Tel Aviv Museum of Art è un bello spazio degli anni ‘70 con un annesso contemporaneo e una ricca collezione: dagli impressionisti agli artisti israeliani passando per un paio di mostre temporanee interessanti. Ed è qui che trovo le copie del New Yorker con i controversi articoli che Hannah Arendt scrisse nel 1963, di cui racconta tra l’altro il bel film di Margarethe von Trotta a lei dedicato. Così, con l’occasione, rispolvero l’archivio del New Yorker e leggo i testi che diventarono: Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil. 

Sempre al Tel Aviv Museum of Art vedo (finalmente) La Grande Bellezza, il film premio Oscar di Sorrentino. Interessante vederlo (in versione originale, naturalmente, con sottotitoli in inglese ed ebraico) insieme a un pubblico israeliano che non coglie l’ironia dove la colgo io ma alla fine (anche tra qualche sbadiglio) sembra afferrare il messaggio, che è poi il monologo finale di Servillo (Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo). Così finisce (quasi) la mia prima giornata in Israele. 

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