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April 20, 2014

People I Know: Bettina Micheli, producer bolzanina con addosso tutto lo stile di New York

Anna Quinz

Le donne newyorkesi non sono uguali a tutte le altre. Sarà il cinema o le serie tv, ma nell’immaginario comune le donne della grande mela hanno “quel certo non so che”, un certo stile, che le differenzia dal resto dell’universo femminile. Bettina Micheli, pur essendo bolzanina di nascita, ha perfettamente interiorizzato questo stile tutto newyorkese. Sarà anche perché Bettina fa uno di quei lavori che al solito sentirli fanno subito “grande città, grande mondo”. Bettina è una “producer”, si occupa di produzioni fotografiche e online video content. Inoltre è consulente photo editor per il New York Times e W Magazine. Studi alla Boston University in International Relations e Mass Communications, Bettina, in vacanza a New York ha fatto un incontro che le ha cambiato la vita. Da lì l’inizio della vita professionale, i tanti progetti e i sogni realizzati. In una città che presto è diventata, inesorabilmente, la sua città.

Bettina, partiamo dall’inizio. Come è cominciata la tua avventura?

Sono finita a New York per caso, anche se vivere in questa città era un mio sogno, come si dice in inglese “be careful what you wish for”.
Nel 1999 sono venuta a trovare un’amica e durante la mia vacanza mi hanno offerto un lavoro. Il destino ha fatto del suo meglio. 2 mesi dopo sono venuta a viverci. Ho messo il piede nel mondo delle produzioni lavorando con Stephane Sednaoui che nel 2000 era un stimatissimo e pluripremiato fotografo e regista. Famoso per i suoi video musicali. Girava videos per Bjork, U2, Red Hot Chilly Pepper, Massive Attack, Kylie Minogue e gente di quel calibro. Io ero la sua in-house producer. Forse è stata l’esperienza più difficile, dato che non sapevo nulla di produzione e lui era molto esigente. Ho imparato tutto facendolo, senza che nessuno mi insegnasse nulla. Lui non aveva pazienza ed era una tortura, ho pianto molto, ma anche imparato moltissimo da questa esperienza.

Ma grazie al lavoro fatto con Stephane ho lavorato per 4 anni al Flair, rivista della Mondadori per la quale seguivo produzioni negli USA. Questa esperienza mi ha aperto le porte per lavorare con I top del settore. Facendo produzioni per Terry Richardson, Patrick Demarchelier, Michael Thompson, Miles Aldridge e alti fotografi importanti dell’epoca. A questo periodo sono seguiti alcuni anni di lavoro nel cinema e TV shows, con poi alla fine un ritorno alla fotografia e short videos, che è la mia dimensione ideale.

E poi? Come sei arrivata, da lì a qui?

Facendo una lunga e durissima gavetta in una città difficile e competitiva. Nulla mi è stato regalato. La produzione richiede molto, quindi se non ti piace non potrai mai essere un producer. Bisogna saper convivere bene con lo stress, sopportare le pressioni e mille richieste che arrivano da tutte le parti. Più è importante il progetto, più grossa diventa la responsabilità. È solo la passione per questo lavoro che ti permette di farlo bene. Essere meticolosi è fondamentale. Sono tantissime le cose che amo, poche quelle che non amo.

In cosa consiste esattamente il tuo lavoro?

Io metto insieme tutto quello che serve a fotografo o regista per realizzare una campagna pubblicitaria, una storia editoriale o un reportage. Per il video invece mi occupo di sviluppare lo script. Partendo dall’idea del cliente si propone il fotografo o regista, si fa il preventivo, il casting, la ricerca delle location, si negoziano i compensi dei  membri del team, si coordinano le riprese, si segue la post produzione. Un servizio a 360°. Come photo editor invece mi occupo più del lato creativo, dando il mio input per la scelta del fotografo e per l’impostazione visiva, che deve riflettere lo stile della rivista.

Tu che lavori con testate giornalistiche importanti, come vedi il destino/futuro dell’editoria, nell’epoca dei social media?

Ho collaborato con tantissime testate. Alcune sono tutt’ora importanti altre non esistono più, altre ancora hanno mantenuto solo la versione online. Certamente le cose nel mondo editoriale e fotografico sono cambiate moltissimo dall’avvento di internet e della foto digitale. Purtroppo o per fortuna, ancora non si sa. Innanzitutto le testate non hanno più i budget che avevano 10 anni fa. È vero che si produce di più perché anche il web ha bisogno di contenuto. Ma il web non paga, e il concetto “tutto gratis” personalmente non mi piace molto. È un settore che comunque dà lavoro a tanta gente, se nessuno paga, nessuno può essere pagato. Le riviste prima erano finanziate dalla pubblicità e attraverso la vendita e gli abbonamenti. Una grande fetta di mercato che è venuta meno. La gente si informa online e sui social media. Ci sono anche molti più fotografi. È diventato un mestiere molto più accessibile. Se poi questo rappresenti davvero il talento, è spesso discutibile. Ricevo ogni giorno mail di fotografi che mi mandano il loro lavoro o chiedono consigli, ma raramente vedo lavori interessanti che mi emozionano e mi fanno battere il cuore.

Il tuo personale rapporto con i mezzi do comunicazione?

Per me il rapporto con i social media è importante, il mio lavoro è cambiato moltissimo da quando esistono. Sui social media ho un mio network professionale di persone che prima dovevo contattare individualmente. Ora vedo e leggo cosa fanno, e sono informata sui cosa succede nel mio settore. Questo sicuramente facilita molto le cose. Essendo una persona molto visuale sono una grandissima fan di Instagram. Non twitto, ma uso Facebook. I social media non sono solo mezzi per tenersi in contatto con amici, servono moltissimo professionalmente. Facile, promuovere il mio lavoro con un’immagine è il mio mestiere, se poi posso accedere ad un pool di persone giornalmente diventa ancora più facile.

Il tuo rapporto con New York? 

Ci abito da più di 14 anni, e il mio rapporto con NY è un rapporto di amore incondizionato, un rapporto molto sofferto e all’inizio doloroso per la difficoltà di capirsi, ambientarsi e reciprocamente accettarsi. Un mondo in tutti i sensi diverso da quello che conoscevo, sia per la vita professionale che per quella privata. È stato un percorso difficile, ma non l’ho mai abbandonata, forse per testardaggine o per orgoglio. Ma ora che noi due ci conosciamo bene, ci piacciamo moltissimo, proprio per quel che siamo.

 Il rapporto invece con “casa” l’Alto Adige?

Il mio rapporto con “casa” è un rapporto molto stretto. Ho la mia famiglia lì e cari amici. La natura e le mie amate montagne. Malgrado viva dall’altra parte del mondo passo almeno 6 settimane all’anno in Alto Adige. Una libertà che mi prendo e alla quale tengo moltissimo. Questo contrasto di ambienti forse rende anche più facile stare bene a NY. Qui ho quello che non ho lì e viceversa e questo è per me è benefico.

 Le tue passioni al di là del lavoro?

Le passioni per fortuna non mi mancano, ne ho infatti diverse. Per fortuna ho passioni che posso vivere a NY e altre che ben si adattano all’ Alto Adige. Mi interesso di arte contemporanea (ovviamente anche la fotografia), seguo artisti e mostre in musei e gallerie. Vado a trovare gli artisti nel loro studio e il mio sogno sarebbe quello di diventare collezionista. Sono una grande amante del cinema e della musica e quando posso sto con gli amici che sono la mia famiglia a NY. Quando sono a Bolzano approfitto delle montagne. Sci d’inverno e camminate d’estate. La fotografia e la produzione, ossia il mio lavoro, rimangono comunque parte integrante della mia vita e fanno forse anche parte delle mie passioni.

Progetti e sogni per il futuro?

Progetti del futuro immediato: una campagna pubblicitaria con Sarah Jessica Parker e un reportage in Louisiana. Poi nuovamente al New York Times.
Un progetto che mi rende molto felice si svolgerà invece a metà maggio: sono stata invitata a far parte della giuria per esprimere opinion e valutare lavori fotografici dei neo laureati della Parson University. Ho avuto già il piacere di farlo per l’SVA – School Of Visual Art, è bellissimo lavorare con e per i giovanissimi.
Il sogno invece sarebbe quello di tornare a produrre per il cinema. Magari un film o un documentario sulla vita di Luis Trenker, uomo affascinante, coraggioso e visionario, che – ahimè - non ha il riconoscimento storico che dovrebbe avere. Mi rammarica quanto poco sia riconosciuto in Alto Adige: se non fosse per una linea di moda che mantiene vivo il suo nome, sarebbe quasi dimenticato.

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