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April 9, 2014

Hashtag di Flavio Pintarelli, aggregatore radiofonico di cultura digitale

Marco Bassetti
Da domenica 6 aprile in onda su Rai Alto Adige, Hashtag. 13 puntate da mezz'ora per approfondire diversi aspetti della cultura digitale che ci circonda. L’autore è una vecchia conoscenza di franzmagazine: il blogger e digital strategist Flavio Pintarelli.

Saranno tanti gli ospiti di Hashtag di Flavio Pintarelli, protagonisti a vario titolo dell’attuale panorama della cultura digitale. E altrettanti saranno i temi trattati, da Aaron Swartz e la cultura open al pubblico della radio nell’epoca di Twitter, dall’industria dei videogames fino ad Anonymous. Domenica 6 aprile è andata in onda la prima di 13 puntate pensate per “fornire strumenti utili per capire i cambiamenti che stiamo vivendo sulla pelle ogni giorno e, allo stesso tempo, raccontare storie vicine e lontane”. Ne abbiamo parlato con Flavio Pintarelli, ideatore e conduttore del programma in onda su Rai Alto Adige.

Come nasce l’idea di Hashtag?

Hashtag nasce da due cicli di incontri che ho organizzato tra il 2012 e il 2013 in Biblioteca Civica e che erano dedicati ai temi della cultura digitale. Oltre a qualche attenzione indesiderata, questi cicli avevano suscitato l’interesse di Paolo Mazzucato della RAI Alto Adige. Così la scorsa estate Paolo mi ha proposto di ideare e condurre un format che lui avrebbe curato ed io, che amo provare cose nuove, non ho potuto fare a meno di accettare. Questo per restare alla cronaca dei fatti, ma se parliamo di ispirazione dietro Hashtag ci sono il mio lavoro come digital strategist (ovvero quella figura che si occupa di pianificare e mettere in atto strategie di comunicazione digitale) e una passione nata ormai diversi anni fa per il digitale e le sue dinamiche.

Che taglio hai voluto dare al programma?

Hahstag ha un taglio molto divulgativo e non poteva essere altrimenti visto che andiamo in onda su un’emittente generalista e cerchiamo di parlare a un pubblico il più possibile ampio. Per cui abbiamo bilanciato i contenuti in modo da non appiattire troppo la complessità dei temi e, allo stesso tempo, abbiamo evitato di essere troppo oscuri, quindi niente informaticismi astrusi e nessun marketismo fuffoso.

Quali obiettivi ti sei prefissato nell’ideazione del programma?

Quello che volevamo era fornire strumenti utili per capire i cambiamenti che stiamo vivendo sulla pelle ogni giorno e, allo stesso tempo, raccontare storie vicine e lontane. Lo abbiamo fatto, per esempio, dando voce alle aziende del settore attive sul nostro territorio (scoprendo delle realtà assai interessanti) e raccontando alcuni dei protagonisti di questa cultura, da Aaron Swartz ad Anonymous.

Oggi siamo tutti utilizzatori, spesso anche compulsivi, delle tecnologie digitali ma spesso manca la consapevolezza del mezzo. In un certo senso si può affermare c’è tanta cultura digitale ma grande carenza di cultura del digitale, sei d’accordo?

Non potrei essere più d’accordo, anche se direi meglio che oggi c’è tanta tecnologia digitale (e ancora più gadget) e troppa carenza di cultura digitale. Questo significa che siamo circondati da strumenti che sappiamo usare ancora troppo poco. E questo è un male, perché in questo modo non si crea consapevolezza ma solo una rincorsa infinita al consumo. Per questo spesso il dibattito sul digitale si appiattisce tra chi ne beatifica le virtù e chi ne demonizza i vizi. Noi abbiamo cercato un punto equidistante da queste prospettive così da poterle guardare con la giusta distanza critica.

Come hai lavorato alla realizzazione delle 13 puntate?

La prima cosa che ho fatto è stata individuare l’hashtag di ogni puntata, ovvero il tema che avrei affrontato in ogni appuntamento. Fin da subito infatti avevo chiaro in testa che volevo confrontarmi con un’unica problematica alla volta e cercare di farlo dando agli ascoltatori dei punti di vista differenti.

Come hai scelto i tuoi interlocutori?

Gli ospiti li ho scelti innanzitutto per le loro competenze rispetto al tema che avevo individuato e per sceglierli ho fatto affidamento sulla rete di contatti che ho costruito in questi anni. Nella maggior parte dei casi gli ospiti sono persone che seguo, leggo e con cui chiacchiero online da un bel po’ di tempo, perciò so cosa avrebbero potuto dare al programma e so cosa avrei potuto chiedere loro per riuscire a far emergere i punti di vista e i temi che mi stavano a cuore. In generale ho sempre cercato di avere almeno un ospite locale in tutte le puntate, ma non ci sono sempre riuscito.

Dacci qualche anticipazione sulla prossima puntata sul Giornalismo (13/04 – con jumpinshark, blogger, e Luca Sticcotti, giornalista salto.bz)). Pongo io a te la domanda: come è cambiato il giornalismo?

Per rispondere adeguatamente solo a questa domanda ci vorrebbero almeno due stagioni di Hashtag, per cui risponderò in il più brevemente possibile. Secondo me il giornalismo non è cambiato per nulla e allo stesso tempo è cambiato molto, e continua a cambiare. Eppure il giornalismo è ancora il modo più veloce e diretto attraverso cui conoscere i fatti e i suoi principi restano più o meno sempre gli stessi. Però questi oggi vanno declinati nel digitale che, come dice Mario Tedeschini Lalli, è la forma che ha assunto adesso la nostra cultura. E “oscurare” i link agli altri portali come fa Toni Ebner non è certo il modo migliore per farlo.

Qual è la più grande trasformazione avvenuta in questi anni nel campo del giornalismo?

Uno dei fatti più eclatanti della cultura digitale è che tutti abbiamo la possibilità di commettere degli “atti di giornalismo”, ovvero di documentare dei fatti. Ai giornalisti professionisti spetta sempre più spesso il compito di verificare e organizzare in modo coerente questi flussi d’informazione. Organizzare significa anche trovar loro la forma più adatta attraverso cui farli fruire, dato che oggi consumiamo le news su un sacco di dispositivi diversi.E alla base di tutti questi cambiamenti c’è la sfida più grande, ovvero trovare un modo per sostenerli economicamente.

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