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March 4, 2014

Stefano Ciccone: “Violenza di genere? Serve cambiare immaginari, rappresentazioni, paradigmi. E sopratutto i finali”

Anna Quinz
Cose da uomini è il progetto curato da Susanna Sara Mandice che si interroga - attraverso i linguaggi dell'arte - sul tema della violenza maschile sulle donne. Quattro artisti uomini coinvolti, molti operatori invitati a raccontare loro le esperienze sul campo. Un progetto approfondito e profondo, che da nuovi punti di vista e nuove visioni. Tra gli esperti invitati a parlare con gli artisti, anche Stefano Ciccone dell'associazione Maschile Plurale.


Di “Cose da uomini” – l’ottimo progetto di ricerca sul tema della violenza di genere curato da Susanna Sara Mandice – abbiamo già parlato (qui). Ma è il momento di parlarne ancora. Un po’ perché il tema è troppo denso e importante per smettere di parlarne, un po’ perché  il progetto sta ora per entrare nel vivo e “raccontarsi” pubblicamente. Finita infatti settimana di residenza e di approfondimento con esperti, i giovani artisti coinvolti (Benjamin Tomasi, Benno Steinegger, Gianni Moretti, Cosimo Veneziano) sono tornati ognuno a casa propria, portandosi dietro un bagaglio forte e un peso notevole e hanno iniziato il “lavoro vero”, quello che si svelerà a tutti noi da sabato 8 marzo (opening venerdì 7 alle 18.00) in Galleria Civica a Bolzano
Durante la settimana di residenza bolzanina, tra i tanti operatori sociali, professionisti, esperti di politiche pubbliche e studi di genere impegnati ogni giorno nel contrasto alla violenza e nelle attività di educazione e prevenzione, gli artisti hanno incontrato anche Stefano Ciccone, presidente dell’associazione Maschile Plurale “un luogo di crescita e di intervento politico e culturale che uomini di diverso orientamento politico e affettivo si sono dati per una maschilità plurale e critica verso il modello patriarcale, per una nuova civiltà delle relazioni sessuate in tutti i contesti di vita degli uomini e delle donne, delle persone etero ed omosessuali” (dalla mission indicata sul sito dell’associazione).
A quell’incontro ho partecipato anche io, perché mi interessava capire quale può essere il punto di vista maschile a un tema universalmente considerato prettamente femminile. Molti gli stimoli e gli spunti lanciati da Stefano, molti i dubbi che mi ha lasciato e le domande che mi ha fatto portare via con me. Ma anche una certezza, quella di sapere che ci sono persone come lui, che si interrogano con profondità e intelligenza, guardando sempre dietro le cose, scrostando la superficie e mettendo il dito proprio lì dove fa male, perché solo così si potrà cambiare. Senza pietismi né commiserazione, ma solo con forza e determinazione, curiosità e desiderio di trovare nuove prospettive in un lavoro difficile ma necessario e preziosissimo, per tutti noi.
Dopo aver sedimentato le cose ascoltate, ho richiamato Stefano, e al telefono abbiamo chiacchierato a lungo. Ecco cosa mi ha raccontato. Per me le sue sono state parole illuminanti, spero anche per voi.  

Stefano, voi di Maschile Plurale lavorate principalmente con gli uomini, ma si sa che rispetto al tema della violenza di genere si tende a parlare di donne. Ascoltandoti, mi sono fatta alcune domande sugli immaginari dell’essere uomo, sul cambiamento maschile di cui tanto si parla. Ma, mi chiedo, se fosse veramente cambiato l’uomo, forse sarebbe cambiata anche la dimensione della violenza. E invece le statistiche non sembrano affatto andare in questa direzione…

In realtà il tema del cambiamento maschile è controverso e contradditorio ed è una delle strade che ci possono portare a ragionare sulla violenza, perché questo cambiamento viene socialmente rappresentato in termini tendenzialmente negativi. Da un lato viene visto come cambiamento obbligato – la rinuncia da parte degli uomini del proprio ruolo e della propria identità – e messo sotto la categoria della crisi (gli uomini messi in crisi dall’indipendenza femminile ecc) e dunque viene sempre inteso dagli uomini come una minaccia, come qualcosa che toglie sicurezza, identità, senso di sé.
E dall’altra il cambiamento maschile è schiacciato nella categoria della femminilizzazione: l’uomo che si prende cura del proprio corpo, che diventano sensibile, il tema dei “mammi”… In realtà non riusciamo a nominare il cambiamento maschile riconoscendolo come elemento che abbia un suo valore e una sua autonomia. E dentro questa rappresentazione, nascono molti dei fili che portano alla violenza: il diffuso rancore maschile verso le pari opportunità, l’opportunismo femminile nelle relazioni, il potere femminile nell’affidamento figli. E dunque nasce un’immagine che porta alla violenza, per la perdita di identità, o meglio, per paura della perdita di identità. E nella confusione di ruoli, di luoghi e di linguaggi che toglierebbe agli uomini il senso di sé, si crea una necessità di reazione. Noi dobbiamo ribaltare questo racconto e raccontare quanto questo cambiamento possa aprire per gli uomini spazi di libertà, una diversa qualità nelle loro relazioni, nella sessualità, nell’immaginario. Pensare a quanto gli uomini possano guadagnare da questo cambiamento e pensare che il movimento che ogni uomo può fare di fronte all’oggettivo cambiamento che c’è nei rapporti tra uomo e donne, possa essere un cambiamento non reattivo o difensivo, ma volto alla conquista per sé di spazi di libertà.

Concretamente, come lavorate?

Noi facciamo un lavoro a vari livelli. Ad esempio sulla comunicazione pubblica, perché questo tema riguarda non solo gli addetti lavori, le forze dell’ordine, gli operatori sociali. La violenza e il cambiamento delle relazioni fra donne e uomini è qualcosa su cui è necessaria una presa di coscienza, un conflitto, una riflessione della comunità complessiva, non degli addetti ai lavori. Su questo facciamo un lavoro diffuso nelle scuole, perché crediamo sia importante ragionare con ragazze e ragazzi, evitando che questo discorso si riduca a una predica, al politicamente corretto, alle buone maniere. Spesso i ragazzi hanno questa rappresentazione, pensano che chi va a parlare di questi temi fa delle raccomandazioni, dice cosa è bene e cosa è male, come ci si comporta. Io credo che invece il lavoro da fare sia rivelare le regole invisibili e i condizionamenti visti come naturali, che legano la vita di ragazze e ragazzi e condizionano i loro comportamenti. Allora in quei casi – per permettere anche ai maschi di scoprire che la loro non è vita priva di condizionamenti aperta alla libertà, ma anzi segnata nei destini e nei ruoli – si fa un passaggio che permetta anche a loro di fare un ragionamento, portandoli a capire che non è solo questione da donne, che non è solo questione di essere solidali con le donne, ma che serve mettere in gioco il desiderio di essere se stesso, ricercando l’autenticità nel proprio progetto di vita.

Lavoriamo anche con gli uomini violenti nei carceri, con i condannati per violenza. E quel che ci stupisce ogni volta è che questi uomini propongano gli stessi luoghi comuni, battute e immagini che troviamo riproposte al bar, in ufficio, in tv. Insomma, gli uomini violenti che stanno nelle nostre carceri, non sono dei mostri, sono uomini che condividono una cultura diffusa e modi di pensare le relazioni che fanno parte della nostra normalità.

Durante il lavoro con gli uomini violenti, c’è da parte loro una presa di coscienza? Non voglio parlare di redenzione, ma mi chiedo, succede qualcosa nelle loro teste, nei loro cuori, nei loro comportamenti?

Sì, assolutamente sì. Ho scoperto, guardando il lavoro che abbiamo fatto sia noi che altri centri che lavorano con uomini maltrattanti (ormai per fortuna ci sono molte esperienze in questo senso), che le persone possono cambiare e si può fare un percorso che non sia né di redenzione né di guarigione: la violenza non è una malattia, non si tratta di guarire gli uomini violenti. Si tratta di fare un percorso di consapevolezza e di rilettura della propria storia. Spesso gli uomini non hanno gli strumenti per leggere e analizzare le proprie emozioni. Siamo abituati a vivere una scissione completa tra razionalità e dimensione emotiva. Siamo abituati a non vedere le nostre dipendenze, fissazioni, paure, e a rimuoverle perché intaccano la nostra identità di uomini. Invece è necessario fare un percorso che non ragioni sulla colpa ma sulle emozioni e le paure che hanno portato a quel comportamento. E ancora, sulle rappresentazioni culturali, le immagini di donne opportuniste nella sessualità o poco autorevoli nelle relazioni, di donne che minacciano l’autonomia di un uomo, superando l’idea che, come maschio, vivendo in una relazione si è meno liberi, autorevoli, padroni di sé. Tutti questi uomini fanno dunque un percorso di consapevolezza, per scoprire che quel che avevano dato per scontato è in realtà una costruzione sociale e che, in quanto tale, si può trasformare e superare.

E le donne? Anche loro – nonostante spesso lo neghino  o cerchino di andare su altre strade – sono attaccate a convenzioni sociali che le ingabbiano in modelli di comportamento. Creando così una spirale difficile da spezzare, no? 

Assolutamente sì. Spesso questa consapevolezza ci porta a colpevolizzare le donne vittime. A dire: “beh ma tu sei stata in quella relazione, in quel gioco di seduzione, o peggio, tu hai educato quell’uomo violento”. Penso che dovremmo ribaltare questa lettura. Cioè riconoscere il fatto che la violenza è frutto di una cultura condivisa che non è di semplice dominio fisico dell’uomo sulle donne ma che è costruzione di un immaginario culturale che plasma anche la vita delle donne e i loro desideri. Allora il potere non è agito solo con la violenza fisica ma soprattutto nell’introiezione della propria inferiorità da parte delle donne, nell’accettazione del proprio destino, nel sentirsi gratificate da uno sguardo maschile basato su un modello tradizionale. Che più che di complicità, è segno di un dominio e di una cultura che condiziona anche le donne. Serve provare a fare un percorso diverso. Fino ad ora abbiamo ritenuto queste questioni, questioni da donne. E solo da poco cominciamo a fare delle riflessioni come uomini, sul fatto che la violenza interroga gli uomini e che la costruzione stereotipata di modelli è un tema di riflessione anche maschile. Il passo in più che dovremmo iniziare a fare è quello di attivare un confronto tra uomini e donne su questi temi. Cominciare a mettere in gioco domande e desideri reciproci scavando anche sulle nostre aspettative. A volta da parte delle donne c’è stato un sospetto rispetto alla riflessione maschile, vissuta come invasione di un territorio politico e culturale tradizionalmente femminile, oppure il sospetto – spesso legittimo – rispetto all’atteggiamento opportunista maschile, all’omaggio maschile verso le donne, all’assunzione di responsabilità un po’ superficiale. Dovremmo iniziare a fare un percorso di dialogo reale e profondo fra uomini e donne dove ci si metta realmente in gioco, riconoscendo le differenze con imparzialità.

Proprio a questo riguardo, tu che sei stato coinvolto attivamente nel progetto, dialogando con i quattro artisti e portando loro la sua esperienza e competenza, che ne pensi di “Cose da uomini”?

A me pare molto interessante, per vari motivi. Primo il titolo, perché in genere parliamo di cose da uomini per intendere cose come lo sport, la politica… e invece è interessante riferirsi a queste tematiche, fino ad ora sempre ritenute cose da donne. E poi lo trovo interessante perché lavora con un linguaggio particolare, quello artistico, che ha per natura la caratteristica dell’ambivalenza, della complessità. Non si tratta di fare campagne comunicative ma usare linguaggi che ci permettano di cogliere dimensione perturbante, controversa, problematica, dei meccanismi profondi della violenza. Questo lo dico perché le campagne sulla violenza spesso sono esse stesse contradditorie o controproducenti, penso alla rappresentazione più diffusa, quella di donne deboli, schiacciate in un angolo, bisognose di protezione, prive di autonomia. Questa idea, questa vittimizzazione, conferma la gerarchia tra sessi e una rappresentazione che giustifica il controllo maschile protettivo ma anche oppressivo. Altra immagine delle campagne è il richiamo agli uomini che fanno appello all’autocontrollo virile, alla capacità di dominio delle proprie emozioni, cioè richiami che confermano modelli molto tradizionali di mascolinità quasi che la violenza fosse segno di un disordine, di una crisi del modello virile capace di dominare i propri istinti e di rispettare virilmente le donne. Il problema è invece l’opposto, la violenza è frutto di quella cultura tradizionale e noi troppo spesso facciamo appello a quella cultura anche nelle campagne che vorrebbero essere di contrasto alla violenza. Quindi un progetto come questo che cerca di cogliere le nostre stesse complicità con la cultura violenta e di cogliere la dimensione controversa di questo tema e di interrogare gli uomini, mi pare sia molto prezioso.

Parlavi di campagne di comunicazione. Io che nella comunicazione lavoro, sono rimasta colpita dopo il tuo racconto bolzanino soprattutto proprio da questa incapacità del mondo della comunicazione di trovare immagini e messaggi efficaci. Ci hai mostrato immagini che di certo hanno un intento positivo di sensibilizzazione, ma le hai lette e “stroncate” tutte. E quel che mi sono portata a casa è che non si è ancora riusciti a comunicare in modo giusto questo tema. E mi chiedo allora, c’è una soluzione possibile, ancora da esplorare?

Non è stato trovato il modo, perché questo richiede una riflessione culturale più innovativa. Maschile Plurale ci sta lavorando, anche con il ministero alle Pari Opportunità, e stiamo progettando una campagna indirizzata agli uomini sul tema della violenza. Abbiamo provato a fare un percorso diverso, a usare una strategia narrativa. Non fare dunque il solito appello o la denuncia, ma provare invece a fare una narrazione delle dinamiche che stanno nella quotidianità e che sono quelle in cui nasce la violenza: la frustrazione per la fine di un rapporto, il senso di ansia per il controllo possessivo legato alla passione, l’insofferenza per una compagna che ha un lavoro che la porta fuori e le dà maggiore autonomia ecc. L’idea è di provare a fare questo, provare ad ascoltare il disagio maschile, le pulsazioni e le frustrazioni che portano alla violenza e non limitarsi a condannare o a fare appello alla virtù di autocontrollo degli uomini. Per proporre una narrazione diversa del cambiamento e soprattutto per dare al disagio – che è individuale e della società tutta – un finale diverso. 

La pagina facebook di Cose da uomini
Il sito di Maschile Plurale 

Immagine: Benjamin Tomasi, elaborazione fotografica di “Donna con Bandiera” di Tina Modotti.

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