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January 29, 2014

Roberto Faenza: “l’Italia oggi sta peggio del dopoguerra. Dobbiamo imparare da Anita”

Anna Quinz

Anita B. è il nuovo film di Roberto Faenza, girato quasi interamente in Alto Adige (affascinante riconoscere gli incontaminati scorci di Glorenza o di Egna) con il sostegno di BlS e coinvolgendo moltissime maestranze locali. Il film racconta la storia di Anita, una ragazzina di 16 anni appena uscita da un campo di concentramento. Di Anita, dell’Alto Adige, della storia e dei suoi interstizi m hai parlato il regista, che abbiamo incontrato a Bolzano, pochi minuti prima che il film venisse proiettato in una gremitissima sala del Filmclub. 

Ecco cosa mi ha raccontato.

Roberto Faenza, ancora un film su Auschwitz?

C’è un equivoco su questo film. Gran parte del pubblico e degli esercenti, appena hanno sentito la parola “Auschwitz” hanno pensato che fosse un nuovo film su questo. Invece qui quel che importa è il dopo. È uno dei pochissimi film che racconta cosa succede dopo la liberazione, perché il cinema ci ha abituati a scene di orrore e morte. Questa è la storia di una ragazza che esce dal campo di concentramento e ha voglia di vita, è piena di candore. È una storia incoraggiante e prima di tutto una storia d’amore. Piena di speranza ed entusiasmo, temi che il cinema della Shoa non ha mai affrontato.

È dunque un film che parlando di speranza, parla ai più giovani.

Sì, nel farlo ho pensato ai ragazzi, perché questa è la storia di una di loro, che deve lottare contro i pregiudizi, le difficoltà, il disamore, l’ottusità adulti. Per me è una storia di oggi. Che si conclude con una battuta di Anita: “Viaggio serena verso il passato con un solo baglio, il futuro”. Mi pare sia un messaggio emblematico per le nuove generazioni.

Anita B ph Monica ChiapparaParlando di temi forti come quello dei campi di sterminio, ci sono due approcci possibili: la memoria, il ricordo, prima di tutto e poi il desiderio di dimenticare, l’oblio. Questo film mi pare si muova su entrambe questi binari. Lei girandolo, che idea si è fatto su memoria e oblio?

 Questo effettivamente è il tema centrale del film. Anita esce dal campo e va incontro alla vita piena di voglia di vivere ma ha un problema: lei vuole parlare di quello che è stata la sua esperienza. E trova davanti a sé un muro di silenzio. Le dicono di dimenticare, il passato e passato, parliamo d’altro. Ma per lei ricordare è un’esigenza che ha dentro. Ma esiste anche l’esigenza di oblio. Molte persone di certe cose non vogliono parlare perché le ritengono troppo dolorose. Mi piace citare “Napoli milionaria” di Eduardo, dove il protagonista torna dalla guerra convinto che tutti lo accoglieranno a braccia aperte, mentre invece nessuno lo vuole neanche invitare a pranzo, perché è stato in guerra. Si vergognano di lui. Anita ha lo stesso problema. Lei cerca di ricostruire la propria vita, ricordando. 

Ma anche il diritto all’oblio ha la sua consistenza. Cito un compagno di baracca di Primo Levi, anche lui sopravvissuto ad Auschwitz, che diceva che dio ha dato all’uomo la dimenticanza, poi ha messo in campo due angeli uno che insegna al bambino a ricordare, l’altro che gli tappa la bocca per dimenticare. Questo conflitto ce lo portiamo dietro da tanto tempo. Ricordo e oblio vanno di pari passo e non mi sento di condannare chi sceglie l’oblio.
Anche se penso che il vero opposto di oblio non sia memoria (peraltro termine abusato che rischia di essere ridondante, anche il giorno della memoria rischia di diventare conformista e per questo ho voluto fare un film su una memoria diversa), ma piuttosto giustizia. Rendere giustizia a persone e avvenimenti di cui non sappiamo o che tendiamo a non ricordare. Anita B. vuole rendere giustizia a questo tipo di ricordo.  

In una sua dichiarazione ha paragonato il periodo storico in cui si ambienta il film – il dopoguerra – all’oggi. Non è forse un paragone un po’ forte?

Non credo sia forte, lo credo anzi molto congruo. Molta gente oggi pensa di vivere nel dopoguerra, c’è una tale crisi economica, di valori e di futuro, soprattutto in Italia. Oggi domina il pessimismo, i giovani pensano di non avere futuro e dunque il paragone con il dopoguerra è assolutamente giusto, con un’aggravante. Mentre nel dopoguerra c’era la ricostruzione, qui non c’è neanche questo. Viviamo come se ci fosse stata una guerra e non vediamo la ricostruzione. Dunque stiamo peggio. Penso che il dramma dell’Italia oggi sia un pessimismo superiore a quella che è la materia alla quale ci troviamo di fronte.
Quello che ci insegna Anita è che nonostante tutte le tragedie vissute, lei ce la fa, perché combatte. Noi italiani dovremmo riprendere un po’ l’idea del combattimento. Smettere di piangerci addosso e lamentarci, rimboccarci maniche e fare come Anita. E alla fine ce la faremmo. 

Anita B ph Monica ChiapparaParliamo della produzione del film, girato per gran parte in Alto Adige. Cosa vi ha convinto a lavorare qui e come vi siete trovati?

Qui abbiamo trovato tutte quelle location che non abbiamo trovato nel luogo originario in cui si ambienta la storia, un paesino in Polonia assalito dai turisti e che di conseguenza è molto cambiato da allora. In Alto Adige invece, avete il merito, di aver mantenuto una certa cultura dell’ambiente, che ci ha permesso di trovare location perfette per ambientare la nostra storia nel dopoguerra. Insieme alle location, abbiamo trovato anche una grandissima disponibilità e capacità dei ragazzi che qui lavorano nel cinema e che si sono formati in questi anni. Il mix tra personale e location, hanno fatto sì che film si girasse qui e non altrove.

Il film è – parole sue – un esperimento produttivo, perché realizzato a basso budget. Come e perché?

Penso che oggi il cinema debba cambiare modo di produrre. Non si possono più produrre film ad altissimo costo, perche poi non recupererebbero. E penso anche che si debba avere un atteggiamento più etico nei confronti del denaro. Si possono fare le stesse cose con meno denaro. Noi abbiamo per esempio abbiamo fatto un film ricco, in costume e di conseguenza più costoso di un film contemporaneo. E anche se l’abbiamo fatto con poco denaro, non è mancato nulla. Perché se qualcuno crede in qualcosa, riesce a crearla e portarla a termine, con uno spirito etico.

 

Nelle foto: 

Anita B.1.: Robert Sheehan – Eline Powell
Anita B.2.: Eline Powell (dietro) – Roberto Faenza – Robert Sheehan (destra)
Anita B.3.: Eline Powell – Moni Ovadia – Antonio Cupo

Foto di Monica Chiappara

 

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