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January 26, 2014

Riflessioni su “Il teatrante” diretto e interpretato da Franco Branciaroli

Lucia Munaro


Ecco, qui dovrebbe esserci un lungo paragrafo in bianco. 
La soluzione davanti alla potenza delle parole di Thomas Bernhard, autore capace di una critica feroce e lucida della società, dell’apparente convivere civile in Austria, paese del Mitteleuropa che gli ha dato i natali e col quale l’Alto Adige-Südtirol volente o nolente è strettamente imparentato, la soluzione che viene in mente per prima è quella di tacere, di fermare il flusso delle parole, perché ciascuna parola dopo un testo sferzante come quello de «Il teatrante» -andato in scena a Bolzano per la stagione dello Stabile nell’allestimento della compagnia degli Incamminati con Franco Branciaroli alla regia e nel ruolo principale- qualsiasi parola suonerebbe di troppo.

Non ha forse detto tutto Bernhard, e il suo capocomico Bruscon/Branciaroli, dell’ipocrisia imperante in un paese in cui si incontrano solo «porcilaie, chiese e nazisti»? Di squallide locande dove nessuno si accorge o tantomeno si scandalizza che tra i trofei di caccia un ritratto polveroso di Hitler non è mai stato rimosso dai tempi del terzo Reich. Dove a richiesta si servono zuppe di stracciatella calda a dovere, mentre fuori lì a fianco si sgozzano e insaccano maiali con regolarità settimanale.

Dove la parola d’ordine è la insulsa sopravvivenza, senza se e senza ma e soprattutto senza porsi domande, e dove infine approda una sgangherata compagnia teatrale fatta di un solo logorroico teatrante e qualche familiare adattato a puro accessorio, amplificatore della smisurata e cosciente megalomania del personaggio, perennemente infastidito, si direbbe, dal mondo.

Un attore che vuole mettere in scena niente di meno che la tragicommedia della Storia, lì sulle assi di legno marcio di una locanda, in un insignificante buco di provincia, dove tutto sa di marciume e di ristrettezza, altroché il kitsch idillico della stube a cui siamo abituati ormai ad associare la nostra terra, di qua e di là delle Alpi.

«La ruota della storia», scritta e riscritta dal protagonista, «il grande Bruscon», non sarà mai rappresentata, ci penserà (forse simbolicamente?) la canonica del paesino Utzbach ad andare a fuoco, con perfetto tempismo scenico del resto, e a richiamare i paesani a cose ben più serie di una rappresentazione teatrale, o forse solo a uno spettacolo più interessante.

Ma in questo testo di teatro sul teatro ad andare in scena è sicuramente l’amara commedia umana, in cui ciascuno con un po’ di vergogna, se è onesto, si riconosce. L’ironia e il sarcasmo del testo, che fanno sorridere di tanto in tanto gli spettatori in platea, servono solo a mandare giù la pillola, perché tutti, onestamente, siamo messi dall’autore con le spalle al muro, e proviamo l’irriducibile bisogno di tenere in piedi la farsa, mentre, suggerisce Bernhard, l’alternativa sarebbe solo il suicidio, dal  quale ci ostiniamo a sfuggire.

Branciaroli nelle due ore dello spettacolo traghetta il pubblico con collaudata perizia -in questo suo allestimento del pezzo Der Theatermacher tradotto da Umberto Gandini- attraverso le acque paludose di un testo difficile,  dove il sarcasmo rischia di cedere ad ogni battuta alla parodia. E sarebbe fuori luogo, perché se Bernhard non risparmia di mettere alla gogna anche tante fisime della gente di teatro, non ci chiede di riderci sopra e basta. In gioco è una critica ben più mordente alle tante cose acquisite, non rielaborate che fanno le nostre radici, la nostra quotidianità, in teatro e fuori, alle comode sicurezze coltivate nella falsa bambagia della provincia, e universali, sia ben chiaro, a ogni paese non solo all’Austria. 

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