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January 9, 2014

Portare l’opera lirica nel contemporaneo: il Flauto Magico di Michela Lucenti

Franz
Sabato 11 e domenica 12 l'opera lirica torna a Bolzano. Ma con un ingrediente nuovo: alla regia, la coreografa di Balletto Civile, la giovane Michela Lucenti. Un Zauberflöte mozartiano diverso il suo, sotto il mare e dentro la contemporaneità. Che mette in azione i cantanti e smuove gli animi in un rito di iniziazione collettivo, oltre il tempo e lo spazio.

 Michela Lucenti è bellissima. E ha un nome perfetto, perché è la luce che esce penetrante dai suoi occhi, l’elemento che più colpisce in lei e che la rende, appunto, bellissima. Semplicità e purezza, nei suoi gesti sapienti di danzatrice e coreografa, complessità e vivacità, nei suoi pensieri e nelle sue parole che sono un flusso piacevole da seguire e ascoltare. Lei è la “prescelta”, con coraggio, dalla Fondazione Teatro Comunale per inaugurare il 2014 della lirica bolzanina. Lei, regista e coreografa di Balletto Civile, lei che già abbiamo più volte incontrato in terra altoatesina, ma sempre in contesti legati alla danza. Questa volta invece Michela si confronta con l’opera, firmando in toto la regia di “Die Zauberflöte”, il classico dei classici del “mostro sacro” Wolfgang Amadeus Mozart . Una grande impresa, un grande viaggio, una grande avventura. Dentro il linguaggio non semplice della lirica, di questa lirica, di questo luogo che ormai una certa propensione verso il genere, l’ha dimostrata (lo spettacolo, infatti, è da tempo sold out) ma che forse non si aspetta quel che vedrà. Accompagnata nel percorso dal direttore d’orchestra Ekhart Wycik, da un gruppo di cantanti giovani, dai suoi danzatori e dall’Orchestra Haydn, Michela ci porta nel suo mondo, nel suo Flauto Magico, nel suo universo drammaturgico, creativo e interiore. La curiosità è molta, l’aspettativa grande. Michela intanto la incontro – ancora una volta con piacere – nella platea del teatro, mentre i tecnici provano le luci e l’audio. Ancora una volta mi colpisce la sua luce, e le cose che mi racconta. Eccole qui.

Michela, dopo un paio di mesi, dopo l’estate e l’esperienza di Bolzano danza (qui), ci ritroviamo. Un nuovo impegno a Bolzano, questa volta con l’opera.  Cosa è successo da allora a oggi? Come stai ora, a poche ora dal debutto e che ne pensi di questa avventura, l’opera?

Da quest’estate a ora, c’è stato in mezzo un sacco di studio. Non è la prima volta che lavoro con l’opera, ma si trattava sempre di lavori a 4 mani, questa è la prima volta che mi occupo interamente della regia, dall’inizio alla fine, da sola.
Credo che questa sia un’opera giusta, nel senso che l’ho amata molto. Come regista e coreografa, ho sempre avuto un grande amore per il canto. Con Balletto Civile collaboro spesso con cantanti lirici, ma in operazioni fisiche, di teatrodanza. Invece qui si è trattato di un lavoro grande di concertazione con qualcosa di più grande di noi, questa musica straordinaria, un vero viaggio.

4La primissima cosa che hai pensato quando la Fondazione ti ha detto “Michela, vuoi fare un’opera per noi”? Ti sei chiesta perché hanno scelto te? Che risposta ti sei data?

Ho pensato: “Oh cavolo, che roba grande”. Allora ho specificato che l’unica cosa che mi sentivo di fare era di dirigere i cantanti come dirigo miei attori. E mi hanno risposto: “Ok, vieni a fare questo”. Credo che nell’invito ci fosse la volontà di avere un approccio artigianale, come quello che ho io. Nonostante io produca visioni complicate, quel che m’interessa è il vuoto del placo e le relazioni tra interpreti. Per fare teatro – il mio – non credo ci voglia moltissimo, se non una grandissima concentrazione ed energia nell’azione drammaturgica, che deve riverberare nel vuoto. Qui poi abbiamo questa cosa straordinaria, che sono queste altre 50 persone davanti al palco che suonano. Ecco, gli orchestrali sono per me altrettanti interpreti. Tutto dunque lo fanno loro, gli attori/cantanti. Hanno una grande responsabilità.

Quali sono stati gli ingredienti fondamentali del tuo approccio a quest’opera, per portarla alla serata della prima, alla quale assisteremo?

Per me oltre allo studio è stato fondamentale fare un lavoro continuo con il maestro Ekhart. Per me è raro trovare un direttore così fisico, così disposto a far sì che l’operazione parli teatralmente, nel rispetto totale della musica ma senza quei momenti – che a volte ci sono nell’opera – nei quali tutto si ferma e comincia un concerto. Questo qui non c’è, per due ore l’azione va avanti, anche e soprattutto perché i cantanti capiscono e comprendono drammaturgicamente quel che stanno dicendo, avendo fatto un vero lavoro da attori, e da attori fisici. Io non avrei saputo fare un’altra regia, ma senza l’aiuto del maestro non ce l’avrei fatta: e li avesse bloccati o inibiti, sarebbe stato difficile. Lui invece era d’accordo con me che se come cantante agisci anche come attore, allora la voce paradossalmente esce meglio e ti libera dalle tensioni.

3Nel mio immaginario – e credo in quello di molti – il cantante lirico è un personaggio impostato, un po’ serioso, dalla presenza imponente. Come sei riuscita a “sciogliere” i tuoi cantanti e portarli a fare quel che chiedevi loro, che sicuramente non è ciò a cui erano abituati?

Instaurando in primo luogo una relazione, sporcandosi le mani insieme. Quel che è stato fondamentale dopo il primo momento di paura, è stato fare un percorso con Ekhart. Quando hanno capito che le azioni che stavano facendo non gli impedivano di cantare, si sono fortificati, perché si sentivano di essere più liberi. E dunque pian piano questa grande responsabilità, che li ha prima preoccupati, li ha poi “gasati”. Fanno cose che li fanno divertire, la loro paura è svanita e cantano benissimo. Buona parte del cast è giovane e questo di certo aiuta. In più per me è stato importante non portare loro la mia idea come qualcosa che viene dall’alto e che li sciaccia. Ho chiesto loro cosa si immaginavano, in fondo anche se l’idea è mia, sono loro che ci mettono la faccia, il corpo, la carne e devono essere convinti di quel che fanno.

Senti, e invece con Mozart com’è andata? Come Shakespeare, è uno di quei mostri sacri di cui tutto si è detto, fatto visto… mica facile relazionarsi con Wolfgang, no?

All’inizio ero spaventata, abbiamo lavorato solo quattro settimane (di solito per un progetto del genere sono almeno 9) e ho avuto paura non di non avere una grande idea. Poi sapevo che avrei trovato maestranze preparatissime, lo stesso Ekhart è al suo ottavo Flauto e ne consce ogni virgola, quindi parli con uno che sa tutto e tu probabilmente hai letto tutto la settimana prima. Ma dopo il grande peso iniziale, è arrivata l’incoscienza, data dal fatto che mi sentivo quasi in colpa, perché mi divertivo. Sì, questa musica mi diverte. È un’opera entusiasmante e allora ho deciso di aprire questo canale, di divertirmi e di trasmettere questo divertimento. A un certo punto serve vivere attraverso la passione, che anche questi mostri sacri avevano, assieme alla conoscenza. Noi non possiamo eguagliare la loro conoscenza, oppure ne abbiamo un’altra data dal nostro tempo, ma possiamo condividere la passione. La testa c’è ma poi entrano in gioco istinto e gioia. Spero che questo arrivi al pubblico: una ventata di vitalità e non una lettura intellettuale del mostro sacro, Mozart. 

La danza – che è il linguaggio con cui normalmente ti relazioni – ha dimostrato in modo forte e chiaro la sua attitudine al contemporaneo, scardinando stilemi e codici. Nell’opera questo pare più difficile. È una forma che sembra granitica (a parte alcune incursioni discutibili, vedi l’opera rock), fortemente legata al suo passato e che difficilmente trova il suo spazio espressivo nella contemporaneità, almeno secondo me. Ovviamente scegliere te alla regia, dimostra che Bolzano vuole provare a cercarlo, questo spazio. In generale, tu vedi spiragli? Modi per proiettare in avanti l’opera, e renderla anche più avvicinabile? 

Credo che soprattutto in Italia ci sia una grossa tradizione con la quale confrontarsi. L’opera è un mostro sacro, difficile da “svecchiare”. Alcune cose sono magnifiche, di grande sapienza. Però è vero che è come affrontare qualcosa di chiuso. Io, anche nel mio lavoro in danza – e lo faccio perché è nella mia indole – quando penso ai mostri sacri musicali, mi chiedo cosa sono oggi. Specificatamente nell’opera, non si tratta di voler essere rivoluzionari a tutti i costi o dare una visione assolutamente personale. Per me in questo caso è più importante cercare di capire cosa vuol dire nel 2014 un viaggio d’iniziazione, cos’è un rito di iniziazione collettivo, che cosa deve fare un uomo per raggiungere una donna. Cioè, portare un linguaggio che spesso lontano, ai giovani. Il mio Flauto Magico deve poter esser visto anche da loro. ecco perché ho cercato di trovare un linguaggio semplice, che non vuol dire banale, che nascondesse un mistero. Qualsiasi giovane uomo o donna, nell’intraprendere il viaggio verso l’amore, nel conoscersi, fa un percorso d’iniziazione, esautorando i messaggi degli adulti. Per me l’idea forte era leggere con sguardo contemporaneo questi viaggi misterici, per rendersi conto che sono in realtà viaggi interiori e non qualcosa di intoccabile che nasconde misteri altri. Tutto questo, giocando (come in inglese, francese o tedesco: giocare, recitare) come se questa materia fosse un videogioco, dove per raggiungere qualcosa serve passare per delle prove da superare. Dunque, c’è una possibile lettura doppia: una più complessa per chi è capace e ha strumenti specifici e una più semplice, più vicina, quella di un giovane che deve crescere per diventare uomo, o donna. Il messaggio è un invito incredibile ai giovanissimi a buttarsi, a fare, a decidere della propria vita, contro di tutto e contro tutti. 

Photo by Benedetta Pitscheider

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