Music

November 19, 2013

La “Macchina Celibe” di Cabeki @ The Hub Rovereto, l’intervista a Andrea Faccioli

Marco Bassetti
Ha frequentato i teatri off, il folk nostrano e l’avanguardia post-rock, e collaborato con artisti del calibro di Tony Conrad, Rhys Chatham, Cisco (Modena City Ramblers), Francesco Magnelli (CSI), Eraldo Bernocchi... Non un comune artista, ma una macchina: musicale, cinematica, celibe.

Chitarra classica, chitarra elettrica, banjo, cumbus, mandriola, bouzouki, ukelin, autoharp, bell harp… ma anche una vecchia tastiera Siel Opera 6, una pianola Bontempi ed un piano elettrico Fender Rhodes. Con questo armamentario, definire Andrea Faccioli “polistrumentista” appare riduttivo. Il suo progetto Cabeki è una macchina musicale che assembla strumenti convenzionali e non, macchinari strampalati ed effetti analogici in un insieme organico: ovvero “un insieme incomprensibile di parti, che segue le sole regole dell’immaginazione” . Gli ingranaggi muovono strumenti tra i più disparati, gli strumenti muovono immagini ed emozioni. Con il suo ultimo lavoro dal titolo Una Macchina Celibe (2012), prodotto da CD Tannen Records/Audioglobe, il compositore veronese ci trasporta in uno scenario fuori dal tempo, tra tradizione neo-classica e sperimentazione contemporanea, e fuori dallo spazio, tra Occidente, Oriente e Sud del mondo. Un luogo della fantasia in cui i Sigur Ros giocano a rimpiattino con il Maestro Nino Rota, il visionario barbuto John Fahey dialoga amabilmente con l’iniziatore della patafisica Alfred Jarry. Impossibile? Sì, appunto. Appuntamento mercoledì 20 Novembre negli spazi di The Hub Rovereto per il secondo appuntamento della stagione 2013 di Live at The Hub – No Music in The Office.

Da dove nasce la tua passione per gli strumenti a corda?

La chitarra classica è stata il mio primo strumento. Quindi le corde sono sempre state la mia vocazione timbrico/sonora, dalla classica alla folk, all’elettrica, fino ad arrivare al banjo, alla chitarra lap steel, bouzuoki, mandolino e strumenti popolani come ukelin, bell harp e cetre varie.

C’è uno strumento a corda sul quale non hai ancora messo le mani e con cui ti piacerebbe sperimentare?

Sicuramente il santoor indiano, una sorta di cetra suonata con dei martelletti.

Quasi tutti quelli che scrivono sulla tua musica, ne sottolineano l’aspetto “cinematico”. Che legame c’è tra la tua ricerca musicale e la “settima arte”?

Se devo essere sincero, questo è un aspetto che è stato fin troppo sottolineato, forse perché in generale la musica strumentale è spesso legata alle immagini. Ma in realtà per me non è sempre così e non parlo solo della mia musica. È sicuramente musica evocativa, ma non l’ho mai pensata come vera e propria musica da film. È anche vero che nei live utilizzo un proiettore super 8, ma la cosa è nata in seguito, tanto che la musica non è legata alle immagini in modo studiato, è un semplice “abbellimento” scenografico.

Ma quando componi l’aspetto visivo ha una qualche importanza?

In realtà, no. Come dicevo, mi affido di più alla sensazione che all’immagine, più allo stomaco che agli occhi, diciamo.

I tuoi pezzi oltre che cinematici sono anche fortemente narrativi. Per portare avanti i tuoi “racconti”, non senti mai la mancanza della voce?

Se già da soli riescono a narrare qualcosa, sono contento. Sicuramente se dovessi musicare un testo scriverei in un altro modo, darei spazio alle parole.

Anche in assenza di parole, ascoltando “Una macchina celibe” è impossibile non cercare oltre il suono un senso ulteriore, profondo, filosofico…

Alla fine sono i miei ascolti, che mi porto dietro come un carretto di ferrivecchi, da cui ogni tanto spunta qualcosa di bizzarro.

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