Culture + Arts > More

November 18, 2013

Il MUSE, 4 mesi dopo

Anna Quinz

Ha aperto solo da pochi mesi (luglio 2013), eppure l’enorme museo di Renzo Piano a Trento, il MUSE, è già diventato un imprescindibile marchio cittadino, un polo d’attrazione che catalizza i visitatori, un punto di riferimento che ha spostato l’asse della mappa urbana di scienza e cultura. Quasi tutti ormai ci sono stati, chi non c’è ancora stato ha in programma di andarci presto. Molti torneranno e magari ci porteranno gli amici in visita da altre città e altri luoghi. Un successo confermato dai numeri, dalla visibilità internazionale, dalle uscite sulla stampa e dalla massiccia quantità di comunicati che noi dei media riceviamo settimanalmente. Un museo giovane che già all’attivo un sacco di eventi, mostre, progetti. Anche non per forza legati alla scienza, che del museo è comunque il “core business”. Perché muoversi su strade liminali, su confini tra linguaggi, su incroci e scambi intellettuali è un po’ la cifra di questo spazio che anche solo per l’allestimento degli spazi interni, ricorda quasi più un museo d’arte che di scienza.
E lo dice una che prima mai si sarebbe sognata di visitarlo, un museo di scienza. Eppure il MUSE mi ha rapito, anche se non mi sono fermata su ogni animale impagliato o formula chimica. Ho intervistato Michele Lanzinger, il suo direttore, per farci raccontare dalla sua diretta testimonianza bilanci, successi annunciati, progettualità future e situazioni di contesto. Perché il MUSE non è un’astronave, ma una struttura viva immersa nella città, in un nuovo quartiere e in uno spazio urbano tutto da ripensare, guardando al futuro in prospettiva. 

Manolo Muse photo by Matteo MucellinPartiamo da quello che tutti si chiedono: bilancio di questi primi mesi di vita del MUSE?

Direi che il mio bilancio vuole non essere solo economico. Quello lo liquidiamo in fretta: più di 120.000 visitatori, 8% di biglietti omaggio, tutto il resto con diverse forme di tariffazione. Ma questo è semplice. Invece gli altri bilanci, quelli che potrebbero essere chiamati bilanci sociali, sono quelli di cui mi piace parlare. Ad esempio, la nostra squadra che sta dimostrando che lavorare nella cultura può essere un mestiere, un mestiere che si colloca nell’economia di un territorio in maniera significativa. Ci sono circa 120 persone che lavorano in questo museo, operando a pieno in questa dimensione economica.
Poi abbiamo un rapporto interessante con il sistema economico-turistico: allo stato attuale circa il 70% delle presenze sono composte da turisti, e questo dimostra che i musei, in Trentino Alto Adige sono effettivamente dei partner significativi per costruire un’idea di destinazione turistica che vada oltre l’affermazione tradizionale della vacanza montana, sciistica ecc. L’investimento sulla cultura, che ha generato capacità di ricerca e sta generando capacità di interpretazione culturale, si sta traducendo in un indotto economico al pari di investimenti su start-up o altri settori economici. Per noi è importantissimo dimostrare tutto questo, e quindi comunicarlo ai vari stakeholder locali e internazionali, perché riteniamo che il nostro compito sul piano della comunicazione, o se vogliamo meta-comunicazione, non sia solo fare advertising ma anche e soprattutto segnalare l’opportunità di investire in cultura, generando un tornaconto territoriale in termini economici e occupazionali.

Diceva che il 70% dei visitatori sono turisti. Il 30% dunque gli “autoctoni”. Non è una percentuale un po’ bassa? Come raggiungere il pubblico locale, per evitare l’effetto “astronave marziana”, difficile da far digerire ai suoi concittadini?
Dal punto di vista psicologico non sono molto preoccupato, e dico subito perché: per certi versi ho voluto sottolineare questa alta percentuale di turisti per dare risalto, appunto, alla soggiacente componente economica e questo soprattutto rispetto al breve segmento di tempo che prendiamo in considerazione, che è il mese di agosto/settembre e l’inizio dell’autunno. Significa che questo museo, anche dopo la “luna di miele” iniziale, ha saputo collocarsi differentemente da prima in una dimensione di efficienza e capacità di intercettare il sistema turistico e quindi quegli assetti che citavo prima. Noi però veniamo da un museo che aveva delle ottime relazioni con il proprio territorio, per questo non siamo preoccupati per il futuro, in relazione al legame territoriale. Anche perché la capacità numerica della popolazione locale diminuisce relativamente in termini percentuali ma non in termini assoluti: a volte medie e percentuali sono indicatori statistici perversi, vanno guardati nella giusta prospettiva.

Manolo Muse photo by Matteo MucellinQuali le strategie allora, per arrivare all’obiettivo, e cementare il rapporto con i concittadini?

Quasi tutte le sere abbiamo nel museo eventi, concerti, conferenze… Significa che questo nostro modo di essere oggetto culturale, al di là delle esposizioni, continua a funzionare.
Peraltro devo ricordare che il museo è anche molto visitato dalle famiglie, che sono un nucleo centrale nella nostra programmazione e nelle nostre scelte.

Vorrei anche sottolineare un altro aspetto che forse potrebbe essere interessante, rispetto alla riflessione sul rapporto tra museo e territorio: probabilmente – anche dal punto di vista strategico – è opportuno che le astronavi, i transatlantici che surfano sul nostro territorio siano considerati tali e si confrontino con questo orizzonte. Ma poi deve instaurarsi un rapporto vero con ciò che le circonda e che, indipendentemente dall’astronave, deve puntare molto sui concetti di partecipazione, cooperazione, inclusione. È come se ci fossero due orizzonti: abbiamo bisogno di grossi investimenti, grosse strutture, grosso advertising per raggiungere le grandi rotte, ma sotto abbiamo bisogno di un territorio che mantenga la sua capacità di produrre, partecipare ed essere culturalmente efficace. La possibilità che ci sia un illuminamento reciproco tra i due è la formula vincente. Questo è quello che noi proviamo a fare: essere significativi come destinazione turistica, poter attirare le persone dall’Austria, dal Veneto, dalla Lombardia, dall’Alto Adige, perché è un museo meritevole di essere visitato, ma allo stesso tempo aumentare le capacità, gli investimenti, le intelligenze, le culture che abitano all’interno del museo perché sappiano relazionarsi con un criterio non economico ma di senso e di socialità, creando questa relazione virtuosa in cui si fanno assieme delle cose.

Da sempre, anche prima della sua nuova sede, il museo ha sempre lavorato sull’interazione tra linguaggi, tra scienza e arti (arti visive, teatro, musica…). Secondo lei, che legami esistono o possono esserci tra queste discipline che al primo sguardo paiono così distanti tra loro? E quanto è importante, per il duraturo successo di un’“astronave”, muoversi in queste zone liminali, per non implodere su se stessa?

Per me è una sorta di continuum e se  dovessi rappresentarlo graficamente vedrei su un asse cartesiano dei punti più raggruppati e punti meno raggruppati, tra arte e scienza. Quando noi ospitiamo eventi come i concerti di Transart, abbiamo una sorta di presenza della dimensione ed espressione artistica in un luogo scientifico. Quando facciamo attività di teatro scientifico, usiamo la retorica, il modo di essere del teatro, per far passare un messaggio di consapevolezza, di attenzione. O quando invece facciamo il science show e usiamo la teatralità per rendere accattivante la scienza, usiamo dei trucchi, dei sistemi di comunicazione più immediati, più divertenti per far passare il messaggio scientifico che in quanto tale sarebbe più noioso e meno facile raggiungere. Si tratta di sviluppare nuove modalità di fare educazione e avvicinamento alla conoscenza scientifica, e di avere a disposizione un luogo prestigioso, funzionale, sociale – come può essere un museo – che ospiti un’attività artistica, riconoscendosi in queste trasversalità. Dunque, credo che il concetto di due culture – quella scientifica e quella umanistica – sia ormai un retaggio inutile del pensiero del novecento. Il nostro compito è superare questo falso problema (falso perché dichiarando la sua antinomia risulta irrisolvibile) dandoci la possibilità di creare connessioni e collaborazioni molto più semplici. Le due culture le abbiamo ormai ahimè inventate, ma servono solo a generare barriere mentali: ed è dunque un problema che noi non ci poniamo.

Manolo Muse photo by Matteo MucellinIl museo è immerso in un nuovo quartiere progettato da Renzo Piano, attualmente ancora “deserto” e un po’ “fantasma”. Come vi relazionate con questo spazio urbano e con la città tutta?

Io credo che con la definitiva e permanente apertura del sottopassaggio che ci porta a 700 metri dalle più importanti piazze di Trento, la connessione tra la città e questo quartiere cambierà radicalmente. Quindi, riprendendo il ragionamento di prima sulla relazione con il territorio circostante, penso che quella che in questo momento è una sorta di barriera di vicinanza, per via del percorso a piedi, sarà fortemente ridotta e noi torneremo ad essere più avvicinabili. Il quartiere, certo, fa fatica a partire, c’è una situazione di crisi generalizzata, per cui avere a disposizione il cash per acquistare nuovi appartamenti non è facile e non è nemmeno facile vendere la propria casa per comprarne una nuova. È una situazione bloccata, che crea grossi problemi al senso di appartenenza di un quartiere, che però va detto, si sta pian piano popolando per quanto riguarda la dimensione del terziario.

Ma la gente, come reagisce a questa nuova area della città, una volta che ci si trova dentro, magari perché è venuta al museo? E il rapporto con lo storico Palazzo delle Albere, che ora, accanto all’imponente e moderno Muse appare ancora più dimesso e depresso?

Noi vediamo tante persone che, dopo la visita al Muse, passeggiano, scoprono quanto la qualità architettonica del quartiere sia buona e quanto sia bello poter vivere vicino alla natura, in affaccio su un parco. Io credo che questo possa generare, oltre ai piccoli impatti diretti già visibili sulla ristorazione, una dimensione di sorriso e di attenzione anche per quanto riguarda l’avvio funzionale dell’area. Il sottopasso che ci mette a contatto con la città impone inoltre alla Provincia Autonoma di Trento di prendere delle decisioni rispetto alle Albere, palazzo sottoposto, in questo momento, a restauri per lo sbarrieramento che gli permetterà di disporre, finalmente, di un ascensore interno e di essere accessibile anche per i disabili. Poi però si dovrà identificare un percorso culturale per questo museo. Tradizionalmente il museo era dedicato agli artisti trentini dell’8-900 e forse oggi – dopo 20 anni di questa funzione specifica, dopo 10 anni di attività in parallelo con il Mart e dopo la dimostrazione della difficoltà di sostenere autonomamente un percorso di questo genere se non altro in termini di visitatori – credo che la Provincia, il museo roveretano e il Comune dovranno valutare la possibilità del nostro diretto contributo a un progetto complessivo. Per aumentare l’attrattività delle Albere, rispetto a quel che ci è stato consegnato alla sua chiusura tre anni fa.

Manolo Muse photo by Matteo MucellinQuanto conta, in termini di successo, risonanza e afflusso, la firma di Renzo Piano? Se il museo l’avesse progettato qualcun altro, sarebbe andato tutto diversamente? Ce l’avreste fatta lo stesso ad arrivare dove siete arrivati?

Non neghiamolo, non so dare un dato statistico preciso su quanto pesi nella volontà di visita il nome di Piano, ma è evidente che questo mix di un architettura di grande qualità e contenuto comunque all’altezza, ha reso questo museo molto attrattivo al punto che, sempre parlando di numeri, più del 60 % dei visitatori sono adulti, e non per forza genitori che accompagnano i figli. Il fatto che le persone adulte si avvicinino a un museo naturalistico che solitamente è considerato un po’ un kindergarten, significa che sono attratte dalle qualità architettoniche dell’edificio. È un po’ un effetto Bilbao. A me piace pensare che sarà questo mix tra architettura e contenuto a generare il ritorno dei vistatori, perché la prima visita è importante, ma se si risolve tutto lì, come museo avremmo fallito.

Ultima domanda, più personale: è orgoglioso del suo museo?

Senz’altro. Sono orgoglioso perché questo museo è frutto di un processo che ha visto tanta partecipazione anche e soprattutto da parte del personale del museo e che – ritorno di nuovo su questo concetto – non ha portato ad appaltare l’anima, né a comprare un pensiero preconfezionato. Qui ci è stata data la possibilità di inventare qualcosa, e di questo siamo felici, orgogliosi e responsabili. Il nostro impegno ora, è di proseguire al meglio delle nostre possibilità. 

Foto : Manolo scala il MUSE  by Matteo Mocellin

Print

Like + Share

Comments

Current day month ye@r *

Discussion+

There are no comments for this article.