Music

October 1, 2013

Almamegretta questa sera al Cristallo. Raiz: “Fermiamoci o il mondo si sbarazzerà di noi”

Marco Bassetti
Dopo dodici anni di distacco, Raiz e gli Almamegretta sono tornati insieme. Il risultato è un disco potentissimo, Controra, di cui abbiamo sentito uno stralcio a febbraio sulla passerella sanremese. Con vent’anni di carriera sulle spalle, la band napoletana sbarca finalmente a Bolzano.

“Chest’ è ll’ora D’ ’a cuntrora” scandisce la voce di Raiz al centro dell’ultimo album degli Almamgretta, intitolato appunto Controra. Ovvero questo è il momento del riposo, perché a Napoli la controra è il momento dopo pranzo in cui è troppo caldo per lavorare e l’unica cosa utile da fare è schiacciare un pisolino. Il sonnellino pomeridiano diventa così metafora per inquadrare il nostro presente, rimedio se non per risolvere ameno per lenire i mali del mondo: un mondo ossessionato dal fare, dal produrre, dal consumare, in cui fermarsi è impossibile, è vietato, è inconcepibile. In cui lo spazio riservato all’etica, alla conoscenza di se stessi e degli altri, sembra scomparso, schiacciato anch’esso dagli ingranaggi della produzione, dell’omologazione, dell’esibizione. Un disco spesso Controra, solido, oscuro, a suo modo politico, sempre imperniato su quel sound potente e meticcio – tra elettronica, dub e sonorità mediterranee – che è marchio di fabbrica della band partenopea. Oggi, come vent’anni fa. In vista del loro concerto di questa sera, martedì 1 ottobre al Teatro Cristallo, in apertura della rassegna Racconti di Musica, abbiamo scambiato due parole con Raiz. Torrenziale, rilassato, profondo.

Al MEI di Faenza avete ricevuto un premio per i vent’anni di carriera. Se guardi indietro a questi vent’anni, cosa vedi?

Quando abbiamo cominciato non c’era la possibilità di fare la musica col computer, non c’era internet, non c’erano i cellulari… Oggi il mondo è radicalmente cambiato, però il nostro approccio è sempre quello. Abbiamo sempre cercato di fare una musica che affondasse in due tradizioni diverse: quella afro-americana, condita di elettronica, dance e dub, e quella napoletana e mediterranea in generale. Il risultato è quello che abbiamo definito “meditronica” e, oggi più che mai, questa mescolanza è attuale.

Perché attuale?

Perché oggi è importante far comunicare culture differenti. È fondamentale per la sopravvivenza del mondo che le culture mantengano la loro diversità, per resistere all’omologazione, ed è sempre più importante che le culture dialoghino. Oggi purtroppo tantissime persone che fanno riferimento alla tradizione la usano per bastonare gli altri. Noi invece da sempre pensiamo che la conservazione delle tradizioni sia importante quanto il rispetto della diversità e la mutua comprensione.

Quindi la vostra formula è rimasta la stessa, quello che è cambiato è forse il pubblico o, meglio, il modo di ascoltare e consumare musica. È così?

Sì, in effetti la ricetta della nostra musica è sempre quella. Il problema è che oggi tutto si brucia in maniera molto più veloce. È bene provare a mantenere sempre un profilo alto, ma spesso anche le cose con un profilo alto bruciano velocemente insieme alle altre. Noi forse siamo stati parte dell’ultima onda capace di imprimere un po’ di memoria e per questo mi ritengo fortunato. Mi rendo conto, però, che oggi è tutto più difficile: le cose che hanno un valore oggi, domani sono già bruciate come un cerino.

Da qui nasce l’idea di un disco dedicato alla “controra”, al pisolino pomeridiano. Un modo poetico per ribadire al mondo la necessità politica di fermarsi, di rallentare il ritmo, di riprendersi il proprio tempo per vivere, respirare, riflettere…

Questo è proprio il momento di fermarsi. Se l’essere umano fosse intelligente capirebbe che l’ossessione della crescita, l’inseguimento esasperato del segno più del PIL, portano all’esaurimento delle risorse. Il mondo si rigenera velocemente, ma gli stiamo dando del filo da torcere. Il problema è che il “sistema creazione” è molto più antico di noi e con una spallata può tranquillamente sbarazzarsi di quel parassita che cerca di succhiargli la linfa vitale. L’ecologia è senza dubbio una priorità, come è una priorità riprendersi il proprio tempo. È necessario fermarsi, è una questione di libertà perché l’uomo libero si definisce in base al tempo che ha per sé. Per questo noi diciamo fermatevi, fermiamoci. Non pensiamo sempre al fare, al guadagnare, ritroviamo lo spazio per l’etica.

L’album si chiude, non a caso, con una citazione di Adriano Olivetti. Non un rivoluzionario, non un profeta, ma più semplicemente uno che è stato capace di tenere insieme etica e impresa. Non ci vorrebbe forse poi molto per cambiare le cose, no?

Nel secolo scorso si è teorizzato e perseguito il cambio radicale della società, tramite rivoluzioni, dittature di partito, azzeramento delle classi sociale, e tutto questo ha significato sangue. Uno come Olivetti ha dimostrato come le cose si possano fare senza grandi capovolgimenti e senza spargere sangue. Davanti alla competizione feroce delle altre aziende quel modello è tramontato, ma ciò non toglie che quello potrebbe essere un modo più giusto di produrre. Oggi forse un’utopia, ma ci piace sempre pensare l’utopia nel suo senso etimologico, cioè come qualcosa che non si trova in nessun luogo. Spetta a noi fare dei passi in avanti per trasformare quella visione in un luogo vero e proprio.

Piccoli passi in direzione dell’utopia, elogio della lentezza, riscoperta delle dimensione etica… Queste tue riflessioni hanno un legame con il tuo avvicinamento alla religione ebraica?

Certo, perché l’ebraismo non è una tradizione ascetica. L’ebraismo, al contrario, spinge a cercare il bene in questo mondo, in mezzo alla gente, alla strada, in mezzo ai problemi. È facile rinchiudersi nella propria torre d’avorio e trovare il bene nella purezza di una vita contemplativa, ma serve a poco. I comandamenti sono invece una guida per operare rettamente nel mondo reale, concreto, di tutti i giorni. La mia ricerca spirituale è un ortoprassi che poggia sulla consapevolezza che il mondo, attraverso la mia opera, possa diventare un po’ meglio.

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