Culture + Arts > Performing Arts

July 19, 2013

Behind Dance. Michela Lucenti e Balletto Civile: invecchiare, crescere e una torre tutta per sè

Anna Quinz
Due progetti inediti, uno sulla torre del Colle e uno che vede danzatori professionisti relazionarsi con anziani ospiti di una casa di riposo bolzanina. Un percorso che va dalla natura all'uomo, dalla giovinezza all'invecchiamento. Michela Lucenti, anima di Balletto Civile ci racconta di sé.

Ancora una volta abbiamo incontrato una delle protagoniste di questa edizione di Bolzano Danza, la coreografa di Balletto Civile Michela Lucenti, per fare con lei quattro chiacchiere. Non tanto sui progetti che presenterà al festival, quanto più su di lei, sul suo essere cittadina, persona, donna. I lavori che porterà a Bolzano, sono lavori particolari. Il primo I Dormienti ci porterà sulla torre di legno al Colle il 20 e 21luglio, e poi a teatro arriverà How long is now #Bolzano, il 23 e 24 luglio, dove danzatori professionisti si relazioneranno con gli anziani della casa di riposo Don Bosco. Progetti fuori dagli schemi, come fuori dagli schemi è Balletto Civile e la sua anima, Michela.

Il tema del festival quest’anno è il cittadino. Allora ti chiedo, al di là della coreografa, che cittadina è Michela?

Abbiamo chiamato la compagnia Balletto Civile, proprio perché mi interessava dare un valore contemporaneo a una parola – balletto – che ci fa venire in mente qualcosa di inconsueto, le danze con le crinoline, i tutù.. invece balletto vuol dire etimologicamente azione danzata, e affiancare a questo la parola “civile” – che viene da cives, cittadino – porta a pensare al danzatore come a qualcuno che fa il suo lavoro, si allena, ma che ha anche forte contatto con il mondo. Come coreografa sono in primo luogo una cittadina e per me è fondamentale l’ interazione con una umanità. Balletto Civile ha al suo interno danzatori con grande formazione, oppure attori, ma a tutti è richiesto di fare esperienze profonde che li mettano in una posizione di discrimine molto grande. Abbiamo lavorato in un ospedale psichiatrico, senza fare lavoro terapeutico o di volontariato: cerchiamo di fare insomma un lavoro profondo e professionale a partire dallo sguardo lucido sul mondo. E dal presente: parti da un’azione danzata, ma la compi in un luogo e in uno spazio piuttosto che in un altro, senza farsi sfuggire quel che si sta facendo in quel momento proprio li, in quel presente.

Dunque, coreografa e cittadina sono una cosa sola. Ma al di là della danza, cosa ama fare Michela quando non lavora?

Quando non lavoro… lavoro. Nel senso che è come se tutto fosse collegato per me, per noi. Amo molto – e questo mi fa spesso prendere in giro da miei danzatori – andare in giro tra la gente, ai concerti, nei centri commerciali. Mi piace osservare le persone. In alcuni momenti mi rilasso, vado al mare, anche in inverno amo prendermi dei momenti per me. Ma il rischio grande che ha chi lavora nell’arte è di essere staccato dalla vita, non tutti riusciamo ad avere una famiglia ad esempio, anche la donna che danza fa fatica e a volte si rimane in un iperuranio separato. Per me, i momenti di riposo – ahimè molto pochi – vanno a risarcirmi di queste osservazioni sul contesto. Vivo, sto con la mia famiglia, coi nonni, gli zii. Faccio cose semplici e questa semplicità è per ricordarmi che sono una persona normale. Così quando torno ai momenti di creazione, mi piace molto ripartire da quelle cose osservate in quei contesti anche stupidi, come fare la spesa al supermercato.

Parlavi delle difficoltà legate al vostro lavoro, peraltro spesso soggetto a preconcetti e idee precostituite (danzatrici anoressiche, complicati rapporti con il cibo…). Tu che rapporto hai con l’essere donna e con il corpo?

Io ho cominciato a lavorare molto presto e ho avuto la fortuna di incontrare grandi maestri come Grotoski e Pina Bausch, che rilanciavano talmente in alto sul senso in modo così lontano dalla tecnica, che mi hanno imposto in primo luogo di togliermi da schemi  sono stretti, piccoli, dove si vola basso. Incontrandoli così presto, loro che mi dicevano che poteva essere meglio di me un danzatore grasso se ha più testa , ho capito che dovevo puntare su altro per farcela. Questo mi ha aiutato molto. In compagnia abbiamo quasi più uomini che donne, ma in generale è una situazione mista, perché per me è importante che la compagnia sia prima di tutto una comunità, con tutte le complessità che comporta portarsi questo circo dietro. Nella complessità e nell’unicità sta il senso: il corpo femminile della danza ha senso se messo a confronto con il grande universo che è il corpo e l’animo maschile. E mii piace avere danzatori con famiglie, che portano bimbi alle prove. Quando si fa uno spettacolo ci si confronta con la comunità del pubblico e anche noi dobbiamo essere una comunità, non qualcosa o qualcuno che si pone dall’altra parte.

Ancora una volta a Bolzano lavorate con un gruppo di anziani di una casa di riposo. Cosa ti affascina e cosa ti spaventa dell’invecchiare?

Invecchiare è un casino. È una questioni di pesi: una cosa va giù da una parte e l’altra sale dall’altra. Bisogna continuamente trovare una certa leggerezza mentre si invecchia, altrimenti la pesantezza del corpo che ti abbandona è insostenibile. O riesci ad alleggerire lo spirito, e allora il peso del corpo diventa qualcosa che lasci perché ti stai elevando, oppure è molto dura. Con gli anziani che incontriamo, sentiamo che stiamo contribuiamo alla loro leggerezza. Non perché si distraggono, ma perché qualcosa in loro, attraverso la manipolazione emotiva, funziona e si attiva. La vicinanza, l’invasione del corpo giovane sudato che gli si infila addosso, la sua accettazione, contribuisce ad alzare qualcosa in loro. è emozionante e forte, per noi e per loro.

L’altro lavoro che presentate, si svolgerà invece al Colle, in mezzo alla natura. Che rapporto hai con lei?

La natura è parte di noi, mi diverte molto. Credo che in realtà non sia qualcosa di estremamente benigno, anzi c’è una sfida continua da fare con lei. Quando mi hanno proposto di lavorare al Colle, ho scoperto luoghi naturali molto poetici, ma quando ho visto la torre, operazione dell’uomo, mi ha fatto venire in mente qualcosa di naiv che somiglia al mio rapporto con la natura. Io vivo in Liguria dove non c’è mai nulla di comodo rispetto alla natura: se vuoi fare il bagno devi tuffarti dagli scogli, per dire. E allora in me è viva l’idea di patteggiare con la natura. Non ho un’idea conciliatoria, mi piace sfidarla, come in questo caso: si sale una torre di 36 metri per vedere faccia a faccia la montagna. Ecco questo rappresenta il mio modo di vedere natura, un modo è attivo, non accogliente né contemplativo, ma che risponde e mette in dialogo con essa, come fa un animale.

Dunque performance per danzatori e torre. Ma la torre è sempre elemento simbolico, dunque mi chiedo e ti chiedo, dove va, a cosa anela, cosa guarda, la torre di Michela?

La mia torre guarda a questo tema che ora mi interessa particolarmente: l’incontro tra generazioni. I vecchi guardano al passato, noi giovani al futuro, ed è solo nel presente che ci troviamo. Ed è li che c’è la possibilità di risolvere le proprie ossessioni, siano esse legate al passato o al futuro. Nel presente ci si acquieta, ci si libera, si vive questo momento, così come è adesso. La torre di Michela è una torre del presente. Come se in quel momento nel quale compiamo quell’atto faticoso, quella salita, ci fosse qualcosa di veramente importante, un’azione da fare insieme al pubblico: puntare verso l’alto verso la liberazione, salire, cercando di liberare una piuma, per liberarci dalle nostre ossessioni. Lì, in quel momento tutto presente, ci prendiamo un momento per noi. Ho l’impressione, ora che sono arrivata ai 40 anni e sono un po’ a metà del viaggio, che lì in quel momento io mi possa prendere un momento per salire e stare. La torre, dunque, porta a me, a noi. 

Photo by Piero Tauro

Print

Like + Share

Comments

Current day month ye@r *

Discussion+

There are no comments for this article.