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July 17, 2013
People I Know. Valentina Emeri: recitare in 3 lingue, dall’Alto Adige fino a San Francisco
Anna Quinz
San Francisco, col suo ponte rosso, le strade in salita e i vecchi tram, è una delle più affascinanti città americane. Ed anche una delle più trasgressive, multiculturali, creative. È proprio qui che vive Valentina Emeri. Nata e cresciuta a Bolzano, Valentina è un’attrice, ha quasi 50 anni, e non li dimostra. Sarà la verve dell’attrice esperta, sarà la sua presenza fisica, il “fisic du role” che innegabilmente porta con sé, la schiettezza dei modi, la limpidezza dello sguardo, l’energia che traspare da ogni suo gesto e parola. Valentina ha studiato recitazione all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma (dove aveva frequentato già l’ultimo anno di scuola in un liceo tedesco), con colleghi di studi del calibro di Luca Zingaretti, Margherita Buy, Sabina Guzzanti. Non ha fatto subito l’attrice Valentina, ma poi l’amore per la recitazione ha vinto ed è iniziato così il lavoro con grandi compagnie, con grandi registi e maestri. Tra questi, nel cuore di Valentina resta Anatoly Vasiliev, una delle massime personalità del teatro russo, con il quale ha lavorato grazie a una collaborazione tra l’accademia romana e quella di Mosca. “Sapeva dare all’attore il potere – racconta Valentina – per lui è attore che muove l’azione, poi regista prende quel che fa l’attore e lo combina. Per me è stato un incontro bellissimo”. Poi tanti altri gli incontri, come quello di un amore durante un viaggio negli States. Da lì è iniziata una nuova vita americana (inframmezzata da lunghi periodi altoatesini, e lavori teatrali “in patria”) e oggi Valentina, con tutta la sua dirompente energia, a San Francisco vive e recita – in inglese – e gestisce il suo gruppo teatrale, chiamato Inferno.
Recitare in 3 lingue non è cosa comune. Valentina cambia se recita in una o nell’altra? In quale ti senti più te stessa?
Direi di sì, l’approccio cambia, soprattutto la voce, che in ogni lingua sta a un livello diverso. La voce italiana, ad esempio, è a un livello più profondo, mi si appoggia meglio, anche se non riesco più a recitare in italiano, perché – ahimè – in Italia non c’è molto lavoro. In quanto alla “verità”, pensavo fosse più italiana, invece ho scoperto che in inglese riesco a giocare di più con la lingua. In fondo tra la parola e te stessa c’è una risonanza, a volte così istintuale che non riesci a lavorarci sopra, ma se c’è un po’ di distanza tra te e la lingua, come per me l’inglese, puoi fare molto, e andare al di là della maschera. Dunque, recitare in inglese, oltre a divertirmi, mi da più libertà.
In Italia il sistema teatrale e culturale è profondamente colpito dalla crisi. Com’è la situazione in America?
In America il teatro si sostiene grazie a fondazioni private, dunque i teatri non chiudono. C’è tanto pubblico, nei grandi teatri si fa un lavoro pubblicitario minuzioso e personalizzato, dove non si ha mai la sensazione di far parte di un mucchio. Cercano gli spettatori uno a uno e si crea una base forte, che se fai buoni spettacoli ti segue. Si instaura insomma un contatto continuo con il proprio pubblico, dall’inizio delle prove fino alla messa in scena. E poi, dove sto io, nella Bay Area, si usa la “sliding scale”: paghi quel che puoi e nessuno viene mandato via per mancanza di fondi. È un buon sistema, che avvicina al teatro.
San Francisco è una delle città che più spesso abbiamo visto al cinema e in tv e a tutti sembra di conoscerla un po’. Com’è viverci?
Io vivo in cima a una collina, con la meravigliosa aria frizzante del mare. In città le cose funzionano semplicemente, gli americani sono molto pratici, tanto che a volte penso che ci fanno usare talmente poco il cervello che ci instupidiscono: trovare sempre soluzioni alle cose complicate è una ginnastica mentale, invece lì tutto va così liscio che ti rilassi. Ma poi appena torno in Italia… A San Francisco c’è la bellezza del melting pot: c’è tutto il mondo, sia per mangiare che per le persone che incontri. Trovi storie sempre interessanti, anche nella persona che viene a dipingerti i muri. È anche un luogo “alternativo” il movimento transgender-gay-lesbian è nato lì, c’è una quantità enorme di religioni e credi, e un corso per qualsiasi cosa. Così dalla sessualità fino agli hobby più strani, trovi sempre qualcuno che ha la tua stessa passione. È una forma di lotta alla solitudine, grande problema in America: tutti si riempiono di corsi e corsetti, per non dover stare 5 minuti da soli.
In un luogo multiculturale come San Francisco, come vivi il tuo essere altoatesina?
Io qui a Bolzano mi sono sempre sentita strana, perché iperattiva, entusiasta, la mia energia era sempre troppa. Sono cresciuta qui 50 anni fa, ero tra le poche italiane in una scuola tedesca, non mi vestivo come le altre bambine. Qui c’era una rigidità che in America non trovo, lì sono la persona più normale e noiosa, perché in fondo non ho scalato l’Himalaya, o fatto le cose pazzesche che la gente ha fatto. Forse anche lì c’è rigidità, ma se c’è, io non la frequento. Comunque, sono molto legata alla mia terra e sono sempre davvero felice di tornarci.
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