Culture + Arts

July 9, 2013

“La scomparsa di Emanuela Orlandi”, intervista ad Alex Boschetti

Marco Bassetti
È uscita in questi giorni per Becco Giallo una graphic novel ad opera di Alex Boschetti e Giuseppe Morici dedicata alla scomparsa di Emauela Orlandi, uno dei casi più oscuri della storia italiana, con coinvolgimento del Vaticano. Un fumetto per "scompigliare le certezze".

Città del Vaticano, 22 giugno 1983. Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, sparisce in circostanze misteriose all’età di 15 anni. “Mi è parso subito strano che un Papa in viaggio all’estero venisse immediatamente avvisato del ritardo di una ragazzina. È evidente che capirono subito che non si trattava di un semplice allontanamento”. Sono le parole di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. Una verità completa sulla vicenda non è mai emersa, perché è stata prontamente messa in funzione un’efficiente macchina depistatoria: c’era qualcosa da nascondere, è evidente, e molti avevano interesse a farlo. Ma “non avere una verità complessiva sul caso, non significa che le verità parziali e alcune certezze vadano dimenticate o trascurate”. A partire da questo assunto, si è svolto il lavoro di ricerca di Alex Boschetti, sceneggiatore e scrittore bolzanino classe ’77, storico di formazione, bolognese di adozione. Il risultato è “La scomparsa di Emanuela Orlandi”, graphic novel firmata Alex Boschetti e Giuseppe Morici ed edita da Becco Giallo.

Alex, dopo il grande successo di “La strage di Bologna” (Becco Giallo), un’altra graphic novel. Come sono entrati i fumetti nella tua vita e nella tua professione?

Sono un appassionato di storia e di narrazioni, non necessariamente storiche. Mi piace indagare tutte le possibilità del raccontare e molti anni fa mi sono dedicato all’approfondimento delle tecniche di sceneggiatura tout court (cinema, serial, videoclip, cartoni animati, fumetti), perché avevo intuito che lavorare con altri e non unicamente soli nella propria stanzetta, poteva riservare sorprese non da poco. E ne ha riservate un bel po’, infatti, di sorprese. Intrecciarsi fa sempre bene. Sono così capitato in un “giro” di disegnatori e mi sono intrecciato con loro, scoprendo il fascino della narrazione per immagini.

Come è nata l’idea di occuparti della scomparsa di Emanuela Orlandi?

Mi è stato chiesto dall’editore.

Quanto lavoro di ricerca ha proceduto la stesura della sceneggiatura?

Molto lavoro, circa un anno… libri, interviste, documenti recuperati a volte in modo rocambolesco, altre volte nella totale quiete dello studioso paziente. Ne è uscito davvero molto, di materiale, in trent’anni, ma credimi, quello più interessante è quello derivato dalle dichiarazioni più assurde ed evidentemente farlocche, perché in una storia edificata sulle bugie, sono queste ultime quelle che più ti avvicinano alla verità, perché non tutti hanno mentito tanto per fare o per puro protagonismo. La bugia “chirurgica”, costruita ad arte, ti fornisce delle ottime lenti per leggere meglio la storia e arrivare alle migliori intuizioni.

Ti sei fatto un’idea precisa di questa oscura vicenda?

Come dico nell’introduzione non mi voglio accodare alla lunga cordata di improvvisati investigatori da salotto con le mie soluzioni al caso. Non è l’obiettivo della graphic novel. Volevamo proporre un prodotto editoriale un po’ più serio. Gli inquirenti non sono arrivati ad una verità, più per merito di una Segreteria di Stato Vaticana che “rimbalzava” le rogatorie internazionali che per propri demeriti professionali. Perché dunque dovrei esserci arrivato io, ad una verità? Però, se parliamo di responsabilità oggettive nell’atto di depistare, sì, un’idea precisa me la sono fatta e i nomi di chi ha depistato e volontariamente intralciato le indagini ci sono e non sono ipotesi. Nel libro sono chiari, ma anche negli atti processuali. Non avere una verità complessiva sul caso, non significa che le verità parziali e alcune certezze vadano dimenticate o trascurate. Partiamo da lì. Sui depistatori e su un certo “sistema di distrazione di massa”, delle idee precise ce le ho, eccome.Alex BoschettiDepistatori dici, puoi essere più preciso?

Partecipare attivamente ai depistaggi ha sempre sortito benefici non da poco per chiunque ne fosse parte attiva, a prescindere dall’evento criminale a cui collegarli. In Italia, dal dopoguerra in poi, si è affinata notevolmente la tecnica del sotterfugio, della comunicazione criptata, della messinscena, e ha coinvolto (e tutt’ora ritengo sia così) diversi attori che hanno costruito alleanze e rapporti di favore: oggi mi aiuti tu, domani ti aiuto io… Fare parte della macchina depistatoria, inoltre, significa avere un ruolo riconosciuto dagli altri, in poche parole essere “importanti”, e questo fatto, nel linguaggio delle bande e del crimine, è fondamentale. Basti pensare alle luci della ribalta che sono state concesse, in relazione al caso Orlandi, ai vari Fronte Turkesh, Lupi Grigi, Banda della Magliana e via dicendo. E questi sono solo i protagonisti del caso specifico. Poi ci sono gli attori di sempre, che tengono in piedi il telaio dell’atto depistatorio, una sorta di format che funziona e continua a funzionare: servizi segreti, logge massoniche, referenti politici (mai troppo in vista, però, sempre di seconda linea per non cadere se cade il politico di riferimento!), organizzazioni internazionali, faccendieri (interni ed esterni alle banche, ma di assoluta dimestichezza con le transazioni finanziarie) e giornalisti al soldo di quest’ultimi, prima ancora che delle proprie testate. E via dicendo.

Parli di “sistema di distrazione di massa”, cosa intendi?

Uso questa espressione non a caso. Quando si vuole agire indisturbati, normalmente lo si fa lontano dai riflettori e da sguardi indiscreti. Montare casi ad arte, che abbiano forte appeal sulle masse, appunto, consente di agire indisturbati in altre direzioni, un po’ come i topi d’appartamento durante le finali dei mondiali, per intenderci… Il depistaggio “ricostruisce” una realtà. Imparare a farlo in relazione ad un episodio, significa imparare a farlo per qualsiasi cosa. Quando la macchina cinematografica è organizzata e ben funzionante, puoi girare tutti i film che vuoi. Potranno esserci registi più bravi o meno bravi, ma comunque la pellicola la porti a casa “dignitosamente”, soprattutto se i produttori finanziatori sono sempre gli stessi. Il caso Orlandi è diventato soprattutto un caso di depistaggio: forse inizialmente si pensava di insabbiare con più velocità e meno complicazioni, ma poi in molti ci hanno preso la mano, tanti si sono autoproclamati responsabili per autoscritturarsi nel cast, e ad un certo punto è convenuto a tutti proseguire con la farsa. Soprattutto alla Segreteria di Stato Vaticana, che ha molto da nascondere e forse oramai è più interessata a coprire le proprie responsabilità nei depistaggi (viste le “scomode” relazioni che verrebbero svelate) piuttosto che i propri crimini diretti, che i fedeli, come abbiamo visto recentemente con i casi di abusi e pedofilia, sono sempre inspiegabilmente disposti a perdonare.

In una simile operazione editoriale, a cavallo tra ricerca storica e fumetto, si può stabilire un confine preciso tra realtà e finzione letteraria?

Ecco l’eterno dilemma, che a volte troppo tempo impegna gli storici, soprattutto nel recente dibattito francese. Francamente, che il mio lavoro possa o no essere considerato una fonte storica è meno importante della possibilità che possa produrre indignazione in chi lo legge. O che possa creare maggiore allerta nei confronti dei tradizionali, e ancora oggi pericolosamente attivi, luoghi del potere, in cui, al di là delle regole, delle leggi e dei nostri affanni, si decidono spesso i nostri destini.

Ma quindi non si può attribuire ad una simile opera un valore storico-scientifico?

Certo che si può! Ma non perché sono bravo, anche perché non è affatto così. Ma perché tutto possiede un valore storico-scientifico. Il reale valore non dipende da chi produce la testimonianza storico-scientifica, ma da chi ne fa uso e come.

Rispetto a una vicenda simile, perché scegliere il linguaggio del fumetto, piuttosto che quello del saggio storico o del reportage televisivo?

Ogni linguaggio ha limiti e pregi. La scelta non deriva dal fatto che la narrazione grafica la considero migliore di altre. Però mi piace pensare che letterature o narrazioni una volta considerate di seconda categoria, possano scompigliare le certezze dei soloni e le prassi consolidate, regalando freschezza, diverse prospettive e nuovi tempi narrativi, così da risvegliare curiosità ormai sopite o approcci scontati. Il fumetto ha un potere evocativo notevole, buon appeal e può mischiare vari registri, regalare nuovi mondi. Spariglia un po’ le carte, insomma. Dunque perché no? Se tu dovessi scegliere, stasera, tra sorbirti l’ennesima puntata di un talk lugubre sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, con le solite musiche sinistre e l’ennesima ricostruzione fatta di passi in primo piano, flauti che rotolano per terra e fotogrammi veloci di uomini con valigette alla mano, oppure leggerti una graphic novel come questa, tu cosa sceglieresti? È sempre una questione di scelte, dopotutto. Almeno finché dipendono da noi.

www.beccogiallo.org/shop/96-la-scomparsa-di-emanuela-orlandi.html

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