Behind the scenes #04. Costumi e e scene, secondo Barbara Bessi

Continua il nostro viaggio dietro le quinte dello spettacolo ora in scena allo Stabile di Bolzano “Forse tornerai dall’estero”. Oggi conosciamo Barbara Bessi, scenografa e costumista che ha dato il suo prezioso contributo alla riuscita di questo progetto corale.

09.05.2013
photo by fabrizio boldrin

Dopo la prima, che è sempre un momento emozionante, continuano le recite di “Forse tornerai dall’estero” di Andrea Montali al Teatro Stabile di Bolzano. La seconda settimana parte oggi, fino a domenica, e poi ancora da giovedì prossimo fino al 19 maggio. Per poi passare al palcoscenico trentino del Santa Chiara.
E noi continuiamo il nostro viaggio dietro le quinte, per capire come nasce uno spettacolo teatrale, attraverso le parole e i racconti dei protagonisti. Dopo l’autore (il più emozionato di tutti, alla sua prima volta a teatro) Andrea Montali, il regista Leo Muscato e l’attore Andrea Castelli, ci perdiamo un po’ in chiacchiere con Barbara Bessi, scenografa e costumista dello spettacolo.

Non sempre, quando si scrive di un qualche lavoro teatrale, si interpella chi fa scene e costumi, si preferisce dare ascolto al regista, al primo attore, all’autore (se vivente). Eppure, senza scene e costumi, uno spettacolo non può nascere. Senza un attento e profondo lavoro su spazi e atmosfere, la riuscita del progetto potrebbe essere compromessa. 

Ecco perché ci interessano le parole di Barbara, un po’ timida ed emozionata davanti al microfono che le metto in mano per registrare e per non perdere nulla di quel che mi dice.  E che potete leggere qui. Per vedere invece il suo lavoro sul palco, andate a vedervi lo spettacolo.

Barbara, com’è andato il lavoro “dietro le quinte” di “Forse tornerai…”? Con il giovane Andrea, autore “alle prime armi” e con Leo, il regista? E come hai sviluppato la tua parte?

Non è la prima volta che mi approccio alla drammaturgia contemporanea. Generalmente, e così è successo in questo caso con Leo, ci si parla, io realizzo un progetto e poi se ne discute insieme. Ci siamo trovati su alcune cose, altre le abbiamo cambiate. Anche se il punto di partenza era comune. Devo dire che ho avuto subito un’immagine in testa, una suggestione.  Pensando al bar dove si svolge la storia, ho pensato a Hopper, perché mi ha colpito l’idea del realismo americano, del silenzio, dell’assenza, in questo locale privo di persone. Un luogo lineare con una prospettiva frontale, che avesse una dimensione forte del colore ma allo stesso tempo neutra. Abbiamo discusso anche della possibilità di lavorare con delle proiezioni, per accentuare l’idea di colore. Poi ho anche sviluppato l’idea della trasparenza per lasciarsi più possibilità drammaturgiche, visto che il testo doveva essere ancora un po’ formato e doveva lasciare più direzioni aperte. Abbiamo deciso di usare il tulle e più piani prospettici, per proporre la contemporanea visione di più scene.

Tutto insomma è nato in gran parte sul posto, in corso d’opera, e si è generato dalle esigenze che via via si sono delineate da quel che si stava creando. È molto divertente e creativo lavorare così.

Questa di Andrea è una storia in cui – noi bolzanini – ci possiamo ritrovare, ma è anche avvolta da una dimensione onirica. Da un lato il realismo, dall’altra una dimensione metafisica. Tu che questa realtà e questo sogno li hai creati “fisicamente” come ti sei mossa?

Non ero mai stata a Bolzano e così quando dovevo immaginare a un bar reale, ho pensato a un luogo che potesse essere internazionale, dove ci fosse un aspetto più simbolico e astratto. In scena ci sono pochi attori e pochi oggetti, essenziali e mirati, così si crea un senso di sospensione.

photo by fabrizio boldrinLa scena è una cornice fondamentale , senza la quale forse la costruzione di uno spettacolo perderebbe di efficacia e incisività. Qual è il tuo “modus operandi”?

È come una pittura. Il mio è un approccio pittorico e credo in una visione, che non deve sormontare ma accompagnare l’opera. In fondo si tratta di un lavoro corale, che non può prescindere da nessun ruolo, e questo lavorare assieme è il bello del teatro.

Però tu devi confrontarti con uno spazio fisico molto concreto – quello in cui si svolge lo spettacolo – che sta all’interno di uno spazio altrettanto fisico e concreto, che ha misure precise, il teatro.

Fondamentalmente per quanto mi riguarda quando progetto mi concentro sull’idea e sul messaggio che autore e regista vogliono veicolare. Il resto è certamente vincolante ma è solo un appoggio in più per dare corpo all’idea di fondo. Il processo creativo va di pari passo, quel che è importante è capire il messaggio da trasmettere. Io, nella costruzione di uno spazio scenico mi astraggo, faccio bozzetti in 3D, come una scatola, e poi mi muovo dentro questa scatola.

E i costumi invece? Qui si lavora sulla contemporaneità e quotidianità, però non sono elemento da sottovalutare. Anche perché poi l’attore ci deve stare dentro, e starci bene.

Quando ho iniziato a lavorare ai costumi di questo spettacolo ero a Roma, dunque non ho potuto conoscere prima gli attori, anche se mi hanno mandato foto, perché anche la fisicità di ciascuno, suggerisce delle idee importanti. Visto che in questo lavoro ci siamo mossi su un’idea di quotidianità, non ho disegnato dei costumi ma è stato importante vedere e poi conoscere gli attori, e poi i costumi si sono creati in itinere, parlando con il regista, capendo quali sfumatura voleva dare a ciascun personaggio. Ho assistito alle prove a tavolino dei primi giorni ed era divertente vedere come sono cambiate – in corso d’opera – le varie personalità dei personaggi che nascevano davanti a me. I costumi sono venuti di conseguenza.  

Parliamo di te. Come sei arrivata a questo lavoro?

È iniziato per caso. E la cosa importante è stata un incontro. Non mi sono diplomata in scenografia ma in scultura all’Accademia di Belle Arti, poi ho avuto la fortuna di incontrare Titina Maselli, una grande pittrice che faceva anche scenografie teatrali. Ho fatto a lungo l’assistente per lei, e poi ho continuato su questo percorso, mantenendo l’approccio pittorico che avevo imparato. Come anche l’importanza dei colori, delle visioni, delle immagini.

Visto che sulla scena sei incaricata di ricreare una certa realtà, come ti poni nei suoi confronti? Come guarda le cose Barbara?

Vedo le cose e le carpisco, un po’ come fa un fotografo. Osservo la realtà e poi si attiva un processo inconscio di raccolta e smistamento di idee.

E a teatro, invece?

Vado spesso a teatro, ma in genere cerco di staccarmi dal giudizio tecnico, sennò mi distraggo. Voglio essere estranea e fruire liberamente quel che sto vedendo. Poi è ovvio che – per deformazione professionale – noto gli aspetti tecnici, ma cerco di non farmi influenzare.

Foto di Fabrizio Boldrin

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