La mano del Dalai Lama

Il Dalai Lama è solito prendere per mano i suoi interlocutori e ha mani molto calde, parlo per esperienza. Bisogna dire che farsi prendere per mano dalla quattordicesima reincarnazione di Avalokitesvara, detto volgarmente “Il Budda della compassione”, provoca una certa emozione. Altre cose, però, colpiscono di quest’uomo (chiamiamolo laicamente così), premio Nobel per la pace 1989, massima autorità spirituale, ma anche morale e politica del popolo tibetano (anche se i panni politici li ha smessi da un paio d’anni, lasciando questa incombenza a un premier regolarmente eletto dalla comunità tibetana in esilio, Lobsang Shangay). Ad esempio, la sua capacità di far caso anche alle cose più minute, ai dettagli insignificanti, quelli a cui facciamo già poco caso noi persone “qualunque”, una dote che avevo già osservato in occasione del nostro primo incontro, oltre dieci anni fa: un piccolo giardino d’inverno, nel palazzo della Provincia di Trento, ad esempio, che non si fila mai nessuno, o un fiocco decorativo attaccato ad una chiave infilata nella serratura di un armadio che nessuno apre mai. Tutto, ai suoi occhi, sembra degno di stupore, anche nel mezzo di un fitto programma di incontri e appuntamenti. Oggetti, paesaggi e persone.
L’abbiamo incontrato a Bolzano, in una saletta dell’hotel Laurin, dove soggiornava nel corso della sua ultima visita in regione. Queste alcune delle cose che ci ha detto sul suo Tibet e sul tema della felicità, oggetto della conferenza pubblica che ha tenuto al Pala Trento l’11 aprile.
Sull’Autonomia del Tibet
Nel 1951 abbiamo firmato un accordo in 17 punti con il governo cinese. Ho anche incontrato Mao Zedon, ed era d’accordo. Nel 1956, quando sono tornato in Tibet dal mio primo viaggio in Cina, abbiamo costituito il governo autonomo per il Tibet e io ero il capo del nuovo Governo. Questa esperienza è stata portata avanti fino al 1959 (quando, in seguito all’insurrezione del popolo tibetano e alla successiva, durissima repressione il Dalai Lama è andato in esilio, stabilendosi nel nord dell’India, a Dharamsala ndr). Conosco la vostra Autonomia perché sono già venuto diverse volte qui. Il problema è che l’Italia é un paese democratico, mentre in Cina non c’è democrazia.
I problemi del Tibet si devono risolvere in qualche modo. Ma sicuramente questo modo non può essere la violenza, come pensano alcuni ministri cinesi. Usando la violenza verso i tibetani non ci sarà mai una soluzione. Si produrranno solo reazioni terribili, come le persone che oggi in Tibet si danno fuoco per protesta, già oltre 130.
Per questo motivo noi stiamo proponendo una soluzione vantaggiosa per entrambe le parti, che consenta da una parte al governo cinese di avere la pace in Tibet e dall’altra ai tibetani di non soffrire e di assumersi le loro responsabilità in ordine alla religione, alla cultura e all’ambiente. Per Pechino ormai è una continua fonte di imbarazzo che all’estero gli venga chiesto conto della condizione dei tibetani. Oggi c’è anche una parte dell’opinione pubblica cinese che ci appoggia. Soprattutto le persone più istruite.
Sulla felicità e la pace interiore
Non ci può essere pace nel mondo se prima gli uomini non raggiungono la pace dentro di sé. Non c’è niente di astratto in questo. La pace interiore è una condizione che può essere appresa ed esercitata. Ed è studiata a livello scientifico. Ci sono università in America che lo fanno.
In generale l’umanità punta su uno sviluppo che riguarda le condizioni esterne all’uomo, uno sviluppo più materiale. Anche a scuola insegnano come sviluppare cose materiali o come curare le malattie del corpo. La mente viene sempre trascurata, anche se soffre, anche se poi gli uomini sono infelici, anche quelli a cui non manca nulla. Sembra che non si sappia proprio da dove viene questa sofferenza mentale, interiore, da cosa sia causata. In senso religioso il problema potrebbe essere risolto tramite la fede. Ma anche le religioni cambiano nel tempo, e poi spesso anche chi ha fede poi si comporta diversamente da come dovrebbe. Dobbiamo innanzitutto sforzarci di coniugare fede e ragione. E comunque la felicità è alla portata di tutti, anche dei non-religiosi.
Ecco un esempio: con la crisi economica le persone che hanno sempre pensato solo al benessere materiale, al denaro, stanno ovviamente soffrendo molto. Ma le persone che hanno amici o buoni conoscenti dai quali si sentono amati e sostenuti, che hanno dato importanza all’ amore e alle relazioni umane soffrono di meno, anche se hanno gli stessi problemi economici delle altre.
Su un altro piano, vi sono persone che non accettano di farsi turbare anche dalle più grandi sofferenze. Una volta ho conosciuto un monaco che aveva passato 16 anni nelle carceri cinesi. Mi disse che ad un certo punto aveva corso un grave pericolo, e io pensavo si riferisse al pericolo di perdere la vita. Invece disse: ho avuto paura di perdere il mio sentimento di compassione verso i cinesi.
Questo significa saper coltivare sentimenti positivi, non lasciare che la propria mente venga vinta dall’infelicità e dalla negatività, anche in condizioni così estreme. Io stesso sono passato attraverso molte vicende dolorose, da quando ho lasciato la mia terra. E anch’io provo sentimenti negativi. Ma non mi lascio sopraffare da essi.