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April 18, 2013

Pierpaolo Capovilla enuncia Pasolini: “Lo sbatto in faccia ai più giovani”

Marco Bassetti

Pierpaolo Capovilla, la prima volta che l’ho visto dal vivo, era il 2000 credo, era il cantante degli One Dimensional Man. La band più potente e malata che le mie orecchie abbiamo mai avuto la fortuna di ascoltare. Un concerto al Pedro di Padova, tutt’oggi tra i tre concerti più belli della mia vita. Estremo, epico, epocale. Avevo vent’anni, pensavo venissero da qualche periferia inglese o dalla Luna o dall’inferno. Poi Capovilla si è evoluto, è nato il Teatro degli Orrori, ed è cominciata un’altra grande storia. In questa evoluzione un ruolo centrale ha giocato la poesia, prima i russi, Majakovskij ed Esenin. Ora Pier Paolo Pasolini. Nell’ambito del Festival delle resistenze contemporanee, (Sabato 20 aprile, ore 21, Teatro Portland, Trento), Capovilla recita “La religione del mio tempo”, reading in tre atti. Ecco l’intervista.

Perché riproporre oggi il Pasolini poeta?

Perché l’attualità del verso pasoliniano è sconcertante. Io ho scoperto tardi “La religione del mio tempo”, conoscevo Pasolini per i suoi film e i suoi romanzi che lessi quando ero ragazzo, ma non mi ero mai lasciato affascinare dal Pasolini poeta. Quindi l’ho scoperto tardi, prima me ne sono innamorato e poi questo innamoramento è diventato un’ossessione. Credo che “La religione del mio tempo”, per quanto sia stata scritta tra il ’58 e il ’59, sembri veramente scritta ieri. E sembra dedicata a noi, perché quel processo di mutamento antropologico della società italiana a cui Pasolini assisteva alla fine degli anni Cinquanta, un processo di dispersione dei valori della Resistenza nel segno del consumismo più sfrenato, dell’individualismo, del narcisismo, è un processo che col tempo si è approfondito fino ad oggi, fino ad irrompere nella nostra contemporaneità in maniera clamorosa. Pasolini aveva compreso molto bene cosa stava accadendo e rileggerlo oggi è inevitabilmente attuale da molti punti di vista.

Ad esempio?

Nel poema “La religione del mio tempo”, Pasolini se la prende con tutti quei cattolici che fanno della pietas e della fratellanza pure norme, rinchiudendosi poi nel loro feroce egoismo quotidiano. Se questo accadeva nel ’58, come potremmo dire che non accade oggi? Fino a poco tempo fa avevamo al governo un partito, la Lega Nord, che sbandiera l’identità cristiana nel modo più anti-cristiano che si possa concepire, addirittura sacrilego.

Nella poetica pasoliniana, a fronte di questa feroce carica critica, è rintracciabile una forte dialettica tra “sbocco rivoluzionario” e “ritorno al mondo antico”, alla cultura contadina… tinte reazionarie che mi affascinano sempre e mi urtano al tempo stesso. Tra le “due vie” quale ti sembra percorribile?

In tutta la grande poesia c’è un po’ questa dialettica contraddittoria, tra il passato e il futuro. Io penso però una cosa: non spetta al poeta indicarci la via, spetta al poeta descrivere l’esistente nella sua realtà. La poesia dice la verità, se no non è poesia, se no è chiacchiera. E poi la poesia ha uno straordinario valore consolatorio, che la rende vicina alla preghiera. Quindi la poesia diventa esortazione, esortazione per i cuori e per le nostre anime, di fare qualcosa per il bene nostro e dei nostri figli.

Quindi la poesia non deve dare delle risposte?

La poesia non dà risposte, la poesia pone delle domande. Cruciali, sempre e soltanto domande cruciali. Non mi rammarico che Pasolini non abbia dato delle risposte, non era un teorico politico, non era né un Marx né un Berlinguer. Era un poeta e come poeta fu avversato sia dalla Chiesa sia dalla destra fascista italiana, come è naturale che fosse, ma anche dal PCI. Un po’ perché era gay, un po’ perche era sempre un po’ sopra le righe. È stato uno straordinario polemista, uno che vedeva lontano.

Un altro aspetto scandaloso della poesia di Pasolini, al di là dei contenuti, è la forma del suo poetare, riconducibile alla metrica tradizionale…

Che io aborro! Io con “La religione del mio tempo” mi sono trovato costretto a fare una scelta molto azzardata, la “mise en prose”. Ho fatta la “mise en prose” dei versi per poterli recitare come dico io. La poesia deve essere enunciata, dunque liberata dalla prigionia dell’inchiostro sulla pagina. Nel momento in cui la enunci, la poesia diventa tua, o meglio diventa nostra. Penso questo sia il mondo più giusto e più bello di resuscitare la poesia. Una volta resuscitato questo Lazzaro di Pasolini, questo Lazzarone… (risate) l’ho trasciniamo nella nostra contemporaneità, senza tante storie, senza scrupoli. E lo sbattiamo in faccia, ai più giovani soprattutto… Perché un giorno anche questo paese riuscirà a essere più giusto e più uguale, sono fiducioso di questo.

Sei fiducioso?

Ti rispondo con Pasolini stesso: “non c’è mai disperazione senza un po’ di speranza”. E aggiungo io: dietro ad un grido di disperazione, si cela non soltanto la speranza, ma anche un desiderio, a volte imperioso, di emancipazione e di riscatto. Per citare ancora Pasolini: “Voglio essere diverso”.  Non voglio essere come quelli della società che mi sta intorno, in cui non mi riconosco e nella quale mi sento completamente inadeguato. Pasolini è questo che mi ha insegnato. Leggere Pasolini oggi per me è anche una confessione di fede, fede nei confronti di un esempio etico di intellettuale.

Come si inserisce l’avventura del reading nella tua carriera artistica? A quale esigenza risponde?

Io cerco di interpretare il mio lavoro nel modo più politico possibile. Politica non nel senso della militanza in un partito o per un’ideologia, ma nel senso della narrazione della società in cui vivo e dell’inadeguatezza in cui mi ritrovo. Nel mio piccolo faccio questo con le canzoni. Poeta io non sono, la poesia è una cosa seria: io scrivo e canto canzonette. Però c’è un sottilissimo filo conduttore tra la musica popolare, che cerca di oltrepassare le barriere sintattiche, etimologiche e logiche, e la poesia. È questo che mi spinge ad approfondire i poeti. Accanto a questo mi sorge spontanea un’altra considerazione: se vogliamo cambiarlo questo paese, dobbiamo fare cultura. Ecco io sto cercando un po’ di approfittare di queste ali che mi sono spuntate sulle spalle e non me le aspettavo: il successo. Vorrei approfittare del successo per fare qualcosa di più.

Come?

Già con il Teatro degli Orrori sono riuscito ad indurre molti giovanissimi ad interessarsi della poesia russa. E mi sono chiesto, perché non approfondire questo lato del mio mestiere? Io sono un uomo molto ambizioso e la mia ambizione è proprio questa: lasciare un segno positivo nella mia vita, cioè nella società con la mia vita. Un giorno me ne andrò anch’io, anch’io passerò come direbbe il buon Vladimir Majakovskij, e forse nessuno si ricorderà di me. Speriamo di lasciare una traccia, una traccia che serve a qualcuno o a qualche cosa.

Non credi nell’eternità?

No, non credo né al paradiso né all’inferno. Credo al ricordo e all’amorevolezza che possono avere i miei coetanei. Mi auguro questo, almeno questo, nulla di più (risate).

A proposito di tracce che lasci, un nuovo disco del Teatro degli Orrori è in cantiere?

In cantiere c’è sempre un disco nuovo. Sempre, sempre. È inevitabile. Adesso ci stiamo passando un po’ di idee, un po’ di file. Giulio e Franz stanno lavorando con Andrea Appino (frontman degli Zen Circus, ndr), io sto lavorando ad un mio disco solista di cui non so ancora niente a parte alcune canzoni che ho già scritto… Insomma un disco nuovo del Teatro degli Orrori non è nell’immediato orizzonte, ma ciò non toglie che ci stiamo già lavorando. Ci siamo, non spariremo facilmente.

Un disco solista?

Sì, molto ma molto lontano dal Teatro degli Orrori.

Verso la canzone italiana?

No, verso la produzione francese (fragorosa risata). Jacques Brel, per capirci. Credo sarà un disco molto privato, molto intimo e molto doloroso. Così come mi sento io adesso.

www.festivalresistenze.it

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