Rifugi alpini, tra riformatori e nostalgici. Ma nostalgici di cosa?

Non posso che essere d’accordo con l’architetto Luciano Bolzoni, quando dice che il passato, in montagna, spesso si confonde con il presente e che per questo, ogni nuova costruzione di montagna, dovrebbe essere figlia di un passato non troppo remoto, ma soprattutto dovrebbe essere autonoma in un presente che ci appartiene.
Dallo scorso aprile, ossia da quando 24 tra i più noti studi di architettura altoatesini si accingevano a consegnare gli elaborati del triplice concorso di progettazione bandito dalla Provincia Autonoma di Bolzano, tanto si è discusso e tanto si è polemizzato sul tema dei rifugi alpini.
Si scopre, cercando di mettere un po’ di ordine nella pluralità di opinioni e di posizioni emerse, che non è facile documentarsi in modo esaustivo sulla materia. Un po’, per citare giornalista e storico dell’alpinismo Enrico Camanni, perché gli escursionisti non se ne sono mai occupati fino in fondo, forse ritenendo il tema priorità degli alpinisti. Un po’ perché gli storici del turismo considerano il rifugio come l’avamposto di un’attività di nicchia, o come semplice surrogato dell’albergo di valle. Un po’ perché gli architetti hanno sempre visto nel rifugio una costruzione troppo essenziale per giustificare l’impiego di un’analisi storica.
Si capisce ben presto, peraltro, che dal punto di vista della concezione dell’uso del rifugio, si contrappongono due visioni. Quella dell’alpinista, che lo considera un riparo artificiale creato non per contemplare la natura, quanto per sfidarla e sottometterla, un luogo dove il tempo è sospeso, dove respirare la propria fragilità in uno spazio minimo di sopravvivenza, sufficiente a se stesso, psicologicamente lontano “dalla sterminata notte carica di abissi”, come scriveva Samivel. E quella poi del turista che cerca lo spettacolo, il fascino sconvolgente del punto di vista, soluzioni costruttive e strutturali estreme per vivere il paesaggio oltre lo scenario mozzafiato, oltre i 3000 metri di altezza, rifuggendo l’essenza rassicurante del riparo a favore dell’adrenalina per la sospensione sul vuoto.
Il dibattito che ha animato giornali, social network, riviste di settore, tavole rotonde nell’ultimo anno, tuttavia, non si è incentrato tanto sulla filosofia nell’approccio all’alpinismo, quanto su questioni di carattere stilistico e architettonico che hanno visto schierati innovatori e conservatori, riformatori e nostalgici.
Ma nostalgici di cosa?
Se guardiamo brevemente alla storia dei rifugi, ricostruita con perizia e raccontata con passione nel libro “Cantieri d’alta quota” di Luca Gibello, capiamo subito che l’immagine che tanto fa disperare i detrattori dell’architettura contemporanea sopra i 3000 metri, altro non è che la forzatura di uno stile autoctono che in realtà non esiste. Risale al 1905, infatti, la fondazione dell’organizzazione elvetica centenaria Heimatschutz, il cui scopo è stato la valorizzazione dell’identità nazionale, ricercata nei caratteri negli edifici e nella cultura costruttiva. La conseguente codifica dei caratteri delle costruzioni rurali degli alpeggi – connotate dal generoso uso della pietra, dalle coperture a due falde in eternit o lamiera, dalle forme semplici e confortanti – che doveva influenzare in maniera quasi prescrittiva ogni progetto edilizio, ha portato a legare indissolubilmente l’edilizia alpina all’idea di baita. Quando, in realtà, la progettazione dei rifugi non aveva una tradizione stilistica e costruttiva dalla quale attingere. Quando, a ben vedere, in un territorio vergine come quello dell’alta quota, ogni edificio è estraneo e portatore di alterazioni sensibili.
Il dialogo con il contesto nasce dalla sua valorizzazione attraverso il progetto di architettura, un progetto consapevole della sua appartenenza alla nostra epoca storica, capace di evidenziare le potenzialità del sito, senza dimenticare che la montagna è impietosa sul fronte della qualità, “che è come una lente di ingrandimento che dilata ogni difetto e non lascia scampo”, come scrive Sebastiano Brandolini.
Evitiamo di ricorrere al finto rustico. Evitiamo la reinterpretazione vernacolare di tipologie tradizionali, che nulla hanno a che fare con la tradizione del rifugio.
Per tornare al concorso dello scorso anno, forse potrebbe valere la pena, se non si è riusciti a visitare la mostra, di sfogliarne il catalogo e provare ad immergersi in quegli spazi disegnati, lasciandosi sedurre dalle storie che vogliono raccontare. Se il progetto in alta quota è stato e continua ad essere una sfida per gli architetti, che la comprensione della contemporaneità e del suo linguaggio diventi una sfida anche per gli appassionati di alpinismo o per i semplici visitatori, ospiti della notte e della montagna, ma anche di nuove forme e concetti.