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April 11, 2013

Marco Martinelli: “il teatro è un grande esercizio di cittadinanza”. Un’intervista che fa pensare che forse il teatro ci salverà

Anna Quinz

Incastro l’intervista con Marco Martinelli – anima e cuore della compagnia Teatro delle Albe che porterà a Bolzano domani venerdì 12 aprile, lo spettacolo “Rumore di acque” - durante un aperitivo di fine giornata durante il quale, con amici si discute animatamente e allegramente dell’incresciosa situazione politica italiana. Non entro qui nel merito dei discorsi un po’ da bar che abbiamo fatto, non è la politica la cosa di cui voglio parlare ora. Riporto però il contesto, perché la conclusione condivisa da tutti noi coinvolti nell’acceso dibattito è stata una sola, che mi pare calzare a pennello con l’intervista che riporto qui sotto. Quello su cui tutti eravamo d’accordo, qualunque fosse la posizione politica di ciascuno, era che quello di cui la nostra Italia ha bisogno, per riemergere dai gorghi che la inabissano in questo momento storico, è un ritorno forte e condiviso ad una politica della cultura, della conoscenza e del sapere.
Troppo a lungo questi concetti sono stati bistrattati e violentati dai potenti, finendo per diventare “fuori moda” anche nella cosiddetta società civile. Troppo a lungo la cultura è stata considerata inutile perdita di tempo e denari mentre il sapere, la conoscenza e la ricerca venivano relegate ad angoli bui per addetti ai lavori un po’ snob. Dove sono finiti gli intellettuali, quelli veri, buoni e sani, che ci insegnano che conoscere e sapere è l’unica ricetta possibile per migliorare e crescere, come cittadini, prima che come pubblico del teatro, del cinema o della sala da concerto?

Tutti noi convitati, su questo eravamo decisamente d´accordo, e mentre io mi staccavo dal gruppo per correre a casa a telefonare a Martinelli, questi pensieri erano molto forti nella mia testa. Ecco perché mentre parlavo con questo teatrante illuminato, ascoltavo le sue parole sensate e sentite, mi sono detta che queste sono le persone che vanno ascoltate. Queste le voci che dovrebbero, anche fuori dalle sale teatrali, urlare più forte delle altre (perché si sa, in Italia, vince chi urla di più) per farsi portavoce di una cittadinanza pronta a cambiare, anche e soprattutto attraverso la dirompente e incrollabile potenza del sapere e della conoscenza.

Lo spettacolo “Rumore di acque” chiude una rassegna – quest’anno incentrata sul tema della diversità – che si chiama “Altri percorsi”. Visto il modo in cui lei e la sua compagnia lavorate, viene spontaneo chiederle quali sono secondo lei i percorsi altri che teatro può o deve intraprendere, nella società contemporanea.

Sono i percorsi che l’arte e il teatro da sempre hanno tracciato, quelli che vanno verso la profondità delle cose e che non si accontentano di autostrade facili che tutti possono percorrere. Vanno a cercare sentieri più laterali, ma che sono ricchi e fecondi per chi li percorre e che allargano la nostra mente, la nostra coscienza e il nostro cuore.

Come si fa a trattare, con i linguaggi del paradosso e del tragicomico che usate nello spettacolo, temi così forti come quello degli esuli e dei morti nelle acque del Mediterraneo perché fuggiti da luoghi di guerra e violenza in cerca di un futuro migliore altrove?

Nasce tutto dal fatto che – davanti a una tragedia così immane – non volevamo assumere il punto di vista delle vittime, per non cadere in una sorta di pietismo inutile. E così ci siamo inventati la figura di questo generale, a partire dalla quale escono il grottesco e il sarcastico dello spettacolo. Questo generale inventato sta in un’isola che non c’è in mezzo al Mediterraneo e fa il lavoro di accoglimento. Mentre gli altri ministri e generali respingono gli esuli, portandoli così alla morte, lui accoglie gli spiriti dei morti sulla sua isoletta e tiene la contabilità. È al servizio di tutti i potenti d’Europa, ma il suo è un lavoraccio, quasi da schiavo, pur essendo un generale. È veramente faticoso tenere la contabilità di migliaia di morti inabissati nelle viscere del Mediterraneo. E come ogni impiegato in mezzo a una pila di fogli e documenti, si arrabbia, sbuffa, creando un cortocircuito con la tragedia immensa che attraverso di lui viene raccontata. Perché lui prendendo i nomi di questo e quell’altro scomparso, comincia a diventare un medium attraverso il quale le vittime trasmettono le loro storie.

Questo espediente narrativo, è la chiave che fa sì che lo spettatore si ponga una domanda: chi siamo noi che ascoltiamo questo generale che sbuffa? Noi non siamo vittime, non siamo morti in mezzo al mare, ma quanto di noi c’è in questo personaggio grottesco, che davanti a queste statistiche inizia a provare quasi noia e indifferenza? Non siamo anche noi un po’ quel generale? Questa domanda sotterranea, fa in modo che lo spettacolo crei un turbamento, uno spaesamento, in chi ascolta.

Nello spettacolo, dunque, non sono le voci dirette delle vittime quelle che ascoltiamo. Ma lei, per costruire questa storia, queste voci le ha ascoltate? Ha incontrato vittime di questa tragedia?

Sono stato quasi 2 anni a Mazara del Vallo, nel profondo della Sicilia, su quella punta che guarda verso l’Africa. Che è dunque uno dei punti di arrivo più significativi dei migranti. Ascoltare in questo tempo tanti racconti, mi ha spinto a inventarmi questo personaggio e questo lavoro teatrale.

Mazara, dunque, come luogo di frontiera tra il “nostro” e l’”altro” mondo. Ma che senso ha oggi, nella società globalizzata dove tutto è vicino, o lontano – e lo dico anche da altoatesina, da persona che è nata e cresciuta in mezzo a due terre, due culture, due mondi – il concetto di confine, di frontiera?

La frontiera più significativa che non riusciamo mai ad abbattere, quella da cui nascono poi la altre frontiere e dogane, è quella che passa tra un essere umano e un altro. È lì che ci giochiamo la partita, da migliaia di anni. È il rapporto con l’altro da me, con lo strano, con lo straniero. Ma già il mio prossimo è altro da me. È da questa estraneità che nasce tutto. Poi bisognerà discutere di politiche economiche, di banche di fondo monetario internazionale, ma secondo me questa politica e questa economia, hanno radici in qualcosa che va nel profondo dell’animo umano: il riconoscere l’altro come me stesso. Ed è a partire da questo che si può cambiare qualcosa, è lì che sta il seme di ogni possibile, futura, vera rivoluzione. Mazara è una frontiera come anche Ravenna, la città in cui vivo. La frontiera è il rapporto con miei vicini di casa. Ogni luogo è una frontiera del mondo. Mazara in più è la città più tunisina d‘Europa, ed è stato per me un osservatorio importantissimo, per vedere come si sviluppano le relazioni tra la comunità siciliana e quella magrebina.

In questo fondamentale processo di consapevolezza e abbattimento dei confini interiori di cui parlava, come può agire il teatro? So che lei fino a pochi minuti fa stava lavorando alle prove di un saggio con degli studenti, e con il Teatro delle Albe lavorate molto coinvolgendo la società civile, quindi i “non teatranti”. Quanto è importante per lei questo tipo di lavoro?

Per il teatro è fondamentale. Se il teatro non sta con le orecchie aperte e il cuore spalancato per farsi attraversare dalle correnti della società in cui vive, allora il teatro è una cosa inutile, un museo noioso. Io ora lavoro con 240 bambini e adolescenti, e tra questi 50/60 arrivano da altri paesi, parlano altre lingue. Allora, questo nostro Pinocchio su cui stiamo lavorando, attraverso il teatro diventa un esperimento di cittadinanza, una festa, il piacere festoso di essere insieme con tante storie, tante lingue tante culture. Credo che il teatro, pur essendo oggi un medium considerato laterale rispetto ad altri media di massa, dal suo angolino possa veramente fare ed essere tanto, per chi si lascia attirare, come una calamita.

Un’ultima cosa. Chi è – fuori dal teatro – il cittadino Marco Martinelli?

La mia vita è il teatro, fatico a separare le due cose. Ho iniziato 35 anni fa, sposando Ermanna Montanari che da allora è compagna di vita e d’arte, oltre che un’attrice straordinaria. Per me il teatro è come se fosse un grande monastero dove non puoi separare “ora et labora”, la preghiera dal lavoro. Nello stesso tempo, come grandi monasteri del medioevo, è tutto tranne che separato dalla società. I monasteri erano polmoni che respiravano insieme alla società e così è il teatro. Dunque, il cittadino Marco è il teatrante, e il teatrante Marco è il cittadino, non esistono separazioni possibili.

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