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March 26, 2013

Le voci del manicomio risuoneranno attraverso le parole (e le immagini) dell’affabulatore Ascanio Celestini

Anna Quinz

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Forse avete l’avete conosciuto in tv insieme a Serena Dandini. Forse l’avete ascoltato alla radio, su Radio3. Forse avete trovato un suo libro in libreria. Forse avete letto qualche suo articolo sul Venerdì di Repubblica o su Faber Blog. Forse avete letto il suo nome nei titoli di testa di qualche film al cinema, per esempio “Mio Fratello è figlio unico” di Daniele Lucchetti. O forse, ancora, avete sentito il suo nome abbinato a quello che forse, più di tutti, è il suo mondo: il teatro. Ascanio Celestini è uno di quei personaggi lì, di quelli che hanno storie da raccontare e trovano sempre il mezzo migliore per farlo. Che sia la tv, la radio, il cinema, la musica, la scrittura o il teatro. Certo, per poterlo fare serve un talento vivace, eclettico, versatile. E lui, modestamente, ce l’ha. Se poi alla capacità di passare da un modo all’atro, senza mai scendere di qualità e forza, si somma il fatto che le storie e i messaggi di Ascanio Celestini sono pure storie e messaggi socialmente, politicamente e civilmente importanti, allora la curiosità di incrociare finalmente la sua strada cresce esponenzialmente. L’occasione, amici trentino-altoatesini è doppia. Prima a Rovereto, con lo spettacolo “Pro Patria” (spettacolo sul carcere e sulla giustizia) domani mercoledì 27 marzo, poi – all’interno della ricca rassegna “Altri Percorsi: Teatro Stabile + Arte della Diversità” con lo spettacolo “La pecora nera – Elogio funebre del manicomio elettrico” (sul tema del manicomio, testo da cui è stato tratto anche l’omonimo film di successo, presentato al Festival del Cinema di Venezia nel 2010), giovedì 28 marzo. Definito “affabulatore, vertiginoso e poetico narratore del nostro passato, ma allo stesso tempo acuto e tagliente fustigatore dell’oggi”, Celestini con il suo metodo antropologico indaga nelle storie delle persone, per raccogliere testimonianze ed esperienze che entrano poi nei suoi spettacoli, che possono parlare di manicomio come di carcere, di politica come di call center. Tutti con la stessa forza e incisività, che non lascia mai indifferenti. Come i due spettacoli in regione, ma come anche – ad esempio – il suo ultimo lavoro “discorsi sulla nazione- studio per uno spettacolo presidenziale”, dove Celestini ha “immaginato alcuni aspiranti tiranni che provano ad affascinare il popolo per strappargli il consenso e la legittimazione. Appaiono al balcone e parlano senza nascondere nulla. Parlano come parlerebbero i nostri tiranni democratici se non avessero bisogno di nascondere il dispotismo sotto il costume di scena dello stato democratico”. Che dire, esiste – oggi in Italia – qualcosa di più attuale?
Con la sua inconfondibile barbetta, Celestini è di certo uno dei nomi “di punta” non solo del nostrano panorama teatrale italiano, ma di quello più generale dell’arte. Di quell’arte capace di entrare nelle teste, e non lasciarle più. Ecco le domande che ho avuto il piacere di fargli ed ecco le risposte che Ascanio Celestini mi ha regalato.

Ascanio Celestini, chi è la pecora nera che da il titolo allo spettacolo che vedremo a Bolzano?

È il personaggio narrante, si chiama Nicola e passa la sua vita in un manicomio.

Costruendo questo lavoro, cosa ha imparato sulla “pazzia” e sui “pazzi”?

Ho lavorato dal 2002 al 2005, facendo una serie interviste nei manicomi in Italia. Ho intervistato principalmente infermieri, persone che stanno molto dentro al manicomio – molto più dei medici – e a stretto contatto con internati. Però stanno molto anche a fuori: a differenza dei medici non hanno infatti la prospettiva ideologica e istituzionale, ma gestiscono in modo pratico i pazienti. Tra la cose che credo di aver capito del manicomio una è stata sintetizzata da un infermiere che mi ha detto: “io ero un violento. Un violento istituzionale, ma comunque un violento”. Dentro ai manicomi si compiva, e si compie, una violenza che viene in qualche modo giustificata e deresponsabilizzata dall’istituzione psichiatrica. Sostanzialmente, la differenza tra la violenza che una persona può compiere in un posto qualunque, a casa, per strada, la violenza dei manicomi, dei carceri, è una violenza che deresponsabilizza completamente chi la compie.

Sulla scena, qui e altrove, lei è da solo. Cosa le provoca questo stato, quali emozioni, quali eventuali paure?

Sono fisicamente sono solo sulla scena, ma lo spettatore non vede solo me. Quando raccontiamo una storia, anche nel quotidiano non mettiamo in fila semplicemente delle parole. Le parole le peschiamo a caso, ciò che raccontiamo sono delle immagini. Quando racconto ciò che ho mangiato a pranzo, ad esempio, non ne faccio una questione gastronomica ma rivedo quello che avevo nel piatto e di conseguenza dico delle parole. La stessa cosa accade quando si racconta sulla scena. Io non penso alle parole che dico, ma a delle immagini, che poi suscitano delle parole. Per lo spettatore è molto simile, non pensa alle parole che sta ascoltando ma alle immagini che queste parole evocano.

2Ma da dove nascono le storie che racconta? E arrivato a questo punto del suo percorso, umano e professionale, quali storie ancora “prudono” per essere raccontate?

Le storie nascono a volte anche per caso. Inizio un lavoro di ricerca e di interviste e poi inizio un percorso, non dato non solo dalle scelte iniziali, ma dal materiale che trovo strada facendo. Rispetto al futuro, sto lavorando sul tema dell’istituzione totale. Prima del manicomio ho lavorato sulla fabbrica, sul campo di concentramento. Dopo il manicomio sui nuovi spazi del lavoro alienante, come i call center. Per esempio, il lavoro “Pro patria” che vedrete a Trento, è sul carcere.

Dati i temi di cui parla nel suo lavoro, viene da chiedersi come interpreta Ascanio Celestini – dal suo privilegiato punto di osservazione – la confusa attualità politica, sociale e civile del nostro paese.

In Italia negli ultimi anni la parte migliore della politica sono i conflitti territoriali, il più evidente il movimento no Tav. la novità consiste nella clandestinità di questi movimenti, che non sono clandestini perché non sappiamo chi li abita, ma perché sono realmente movimenti dove si esprime la democrazia diretta, dove non c’è il concetto delega, di qualcuno che rappresenta qualcun altro. Certo c’è ancora una politica ‘8-‘900esca che abita i palazzi del potere, ma l’attivarsi determinato dei territori è a mio parere il fenomeno più interessante dell’attualità politica italiana.

E il teatro, che ruolo, valore, può o potrebbe avere secondo lei, in questi processi di cambiamento?

Non credo che il teatro, come la scrittura o il cinema, abbiano valore politico, se non in senso generale. Il teatro accade nella città, nella polis, e in quanto pubblico è un atto politico. Quando io scrivo una storia non penso al valore che questa storia può avere. Cerco di scrivere una storia in modo che sia una bella storia. Fare in modo che il teatro, l’arte, la scrittura o il cinema abbiano principalmente un valore politico, significa in qualche modo giustificare un brutto racconto, solo perché ha un contenuto importante.

Nel suo lungo percorso, ha intercettato i linguaggi del teatro, del cinema, della scrittura, della televisione. Come usa Ascanio Celestini questi diversi mezzi espressivi? E cambia Ascanio Celestini quando usa uno o l’altro?

Più che linguaggi diversi sono condizioni, situazioni diverse. Per fare un film serve un certo numero di persone e la scrittura nasce dalla relazione con le altre persone. Per scrivere un libro invece tutto accade nella testa di chi scrive e finisce in maniera diretta sulla carta. Non credo ci sia una differenza di linguaggio, ma di atteggiamento. Per lavorare con le altre persone serve apertura e fiducia negli altri.

Nella sua storia professionale, si incrocia anche la musica. Che rapporto ha con questo mezzo espressivo?

Ho iniziato a lavorare qualche anno fa con il musicista Matteo D’Agostino perché stavamo scrivendo dei racconti presi dalla tradizione popolare. È stato un lavoro lungo, portato in radio. La musica per me è una sorta di tessuto drammaturgico. Sulla musica puoi appoggiare degli oggetti che altrimenti cadrebbero, è come una rete, che tiene insieme dei pezzi.

3Cosa ama fare Ascanio Celestini quando non lavora?

In realtà faccio un lavoro per il quale difficilmente non lavoro. È un lavoro diviso in 2 parti, una più chiara e visibile, quella dello stare in scena, l’altra è quella del relazionarmi con le persone. Quando non lavoro, insomma, è un po’ come se lavorassi lo stesso. Sono continuamente in cerca di relazioni.

Nella sua biografia, trovata nel suo sito, per raccontarsi e per parlare di sé parla di suo padre, di sua madre parrucchiera, dei suoi nonni. Ma allora chi è Ascanio Celestini?

Ho scritto quella biografia (qualche anno fa) perché penso che il curriculum sia una maniera molto schematica di raccontare l’esperienza di una persona, che non è solo quella che passa attraverso corsi, laboratori, master. La nostra esperienza è soprattutto un’esperienza umana. Visto che il mio lavoro è raccontare storie, ho cercato di partire dalle prime storie che ho ascoltato, in famiglia. Non che fossero storie particolari o eccezionali, ma confrontandole con quelle su cui lavoravo, o partendo da libri, mi sembrava ci fosse un territorio comune.

Ma vista la storia di famiglia, come è arrivato al teatro, che non è appunto una professione ereditata?

Ci sono arrivato perché mi sembrava che il teatro fosse un’altra parte della ricerca sul campo, dell’antropologia. Se nella ricerca mettiamo insieme dei materiali – orali, gestuali, musicali, narrativi – questi materiali una volta raccolti è un po’ come se morissero, come se venissero inscatolati. Il teatro è un po’ l’altro versante dell’antropologia. Una maniera per tenere vivo del materiale che altrimenti sarebbe un po’ come un corpo vivisezionato.

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