Berlinale Days #02

Berlino è così poco glamour che questo poco di glamour che la Berlinale porta con sé, se lo vive in modo un po’ strano. Altro cho folle oceaniche. Solo le serate di gala si avvicinano vagamente ai grandi Red Carpet. Di giorno, i grandi divi internazionali sono circondati solo da qualche capannello di fan; per il resto, quando ti si siedono accanto in sala, nessuno se li fila.
Come durante la prima proiezione del mattino, quando un impassibile Willem Dafoe si siede a due poltrone da me a guardare Gloria, il bel film cileno nato dall’entourage di Pablo Larrain (già vincitore del Torino Film Festival e regista del recente, ottimo “NO”, qui in veste di produttore) e per mano del regista Sebastián Lelio, la storia di una donna divorziata con due figli oramai grandi, prossima ai 60, che cerca e trova compagnia nei locali da ballo fino a una relazione che sembra più seria delle altre ma poi naufraga davanti alle menzogne dell’uomo. E sulle note finali di Umberto Tozzi, la protagonista Paulina García, oramai definita la Meryl Streep del Sud America, brinda e celebra la sua ritrovata dignità tra gli applausi scroscianti del pubblico in sala.
Molto meno convincente il film canadese di Denis Côté, Vic + Flo ont vu un ours, la storia di una donna (Pierrette Robitaille, famosa attrice televisiva canadese, qui in un insolito ruolo drammatico) che esce di prigione dopo un crimine non meglio specificato, che cerca di rifarsi una vita nella campagna del Québec; ma anche una storia di vendetta, sempre per motivi non meglio specificati, nei confronti della di lei compagna (una travolgente Romane Bohringer), per mano di una donna che emerge dal passato per rovinare loro la vita non senza una certa crudeltà. “E cosa le avrà mai fatto per farla arrabbiare così tanto?”, chiedo al regista, ma lui nicchia, raccontandomi della scelta di vedere finalmente in faccia un cattivo anziché continuare, come sembra fare tutto il cinema moderno, a incolpare Malattia, Morte, Disoccupazione, Povertà di tutte le nostre disgrazie. E se su questo possiamo concordare, personalmente preferisco mi raccontino cosa è successo e perché il cattivo è cattivo. Alla Tarantino, per intenderci. Ma di sceneggiature con finali troppo aperti, in questo film festival, sembrano essercene parecchie.
Uno dei pochi film che davvero non presenta difetti, nella costruzione narrativa, è il delizioso Tanta Agua, opera prima delle uruguayane Ana Guevara Pose e Leticia Jorge Romero, con produzione messicana, la storia di una settimana di vacanza di un padre divorziato con i due figli, un ragazzino di 11 anni e una ragazza di 14 in bilico tra infanzia e età adulta. Il film, vagamente autobiografico per loro stessa ammissione, è dedicato ai padri delle due registe. Tra la sfortuna della pioggia e le difficoltà di una relazione fra i tre, diverse anche per l’infelice fase che sta attraversando la figlia con i suoi cambiamenti, gli equilibri sono raccontati in punta di piedi, ma con grande realismo e ironia. E per ora, evviva il cinema sudamericano.