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February 5, 2013

TFF, il festival POP di Paolo Virzì. Il baricentro del cinema si sposta a Nord (e l’Alto Adige?)

Cristina Vezzaro

È una giornata di sole quella che accoglie Paolo Virzì a Torino per la conferenza di insediamento a direttore del Torino Film Festival, la cui guida è già stata definita “pop” per l’annunciata presenza di nuove sezioni, da una retrospettiva su due anni a cura di Emanuela Martini da inserire all’interno di Festa Mobile e dal nome “New Hollywood – il nuovo cinema americano tra il 1967 e il 1976”, dedicata agli esordi dei maestri del cinema contemporaneo e dei volti dei loro attori prima che diventassero star mondiali, a una sezione probabilmente intitolata “Europop” riservata al cinema europeo mainstream che per contorte ragioni di distribuzione non raggiunge le sale italiane, a uno spazio, infine, destinato al cinema italiano degli ultimi 15 anni, resistito valorosamente anche in tempi di crisi; non mancherà nemmeno la solita selezione di ottimi film in concorso e di film della rassegna “Onde”. Un festival, insomma, che Virzì vuole “senza confini né paletti”, dove gli appassionati di opere sperimentali potranno trovare ciò che vanno cercando ma dove si dia anche giusto valore alle opere che hanno contribuito a cambiare il gusto di pubblico e autori lungo il corso degli anni, poiché “è sbagliato emarginare cultura alta e bassa”.

È pieno di idee, Paolo Virzì, che sottolinea la necessità di comprendere in questa importantissima realtà italiana “con cui sono altri a dover fare i conti” anche le nuove forme attorno al cinema moderno, quali il web, l’apporto dell’opinione di magazine e blogger (da contrapporre magari all’establishment della critica cinematografica), la televisione pubblica, che intende chiamare a diffondere e valorizzare un festival tanto importante; e difendendo la necessità di film in versione originale, la cui diffusione, a differenza di quanto accade all’estero, è altrimenti limitata a solo poche sale in Italia.

Sta per iniziare le riprese del suo nuovo film, Virzì, il cui titolo sarà presumibilmente “Il capitale umano” dall’omonimo romanzo americano di Stephen Amidon, che definisce un “noir padano” o un “thriller brianzolo” e avrà un cast corale che comprenderà, tra gli altri, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni.

“È un film non facile”, spiega Virzì, il cui baricentro (grazie anche alla Film Commission Lombardia) da Livorno e Roma sembra spostarsi a Nord, tra Torino e la Lombardia. E chissà che la Film Commission Alto Adige non lo porti prima o poi ancora più a Nord.

Poco torinese, poiché contrario alla torinese tradizione dell’understatement, è invece il Red Carpet che vorrebbe per accogliere i registi, che “diciamolo, se la fanno sotto, si giocano tutto il lavoro degli ultimi due-tre anni nel giro di un festival”, o almeno i grandi ospiti. E mentre vengono ribaditi dai rappresentanti politici in sala (tra cui anche il sindaco Piero Fassino, che Virzì dice di invidiare ai torinesi e definisce imparagonabile al sindaco di Roma “per levatura e altezza”) stanziamenti della Regione Piemonte per quasi sei milioni di euro al sistema cinema (TFF, Museo nazionale del cinema e Film Commission Piemonte con i relativi laboratori), Virzì sottolinea anche l’importanza di coinvolgere maggiormente il pubblico, a cui affidare, come già in altri festival quali Berlino e Toronto, l’onere e l’onore di attribuire un premio.

Questo “festival 2.0”, come lo vorrebbe Virzì, è insomma “un festival non razzista, un’utopia in nove giorni, un festival che sia bello e ospitale, che per gli artisti sia un momento caldo e accogliente”. E se la simpatia con cui Virzì presenta il suo programma risulta travolgente, non gli manca certo l’autorevolezza che si addice a un direttore di festival. In bocca al lupo, quindi, a Virzì. Purché le innovazioni pop e glamour non snaturino il Torino Film Festival privandolo della veste più sperimentale e underground che ne ha determinato il successo ed è forse l’aspetto più interessante della sabauda Torino; ché di brutte copie pseudo-glamour o di sorelle maggiori star mondiali già ne abbiamo, in Italia, e non c’è bisogno di averne altre.

E ora, Berlinale.

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