Un tram che si chiama desiderio

09.12.2012
Un tram che si chiama desiderio

Pezzi di mobilio, o piuttosto scheletri di mobili che fungono da casse acustiche e si faranno eco di traumi passati, luci, riflettori puntati sulla platea e l’attesa prolungata per i personaggi del dramma. Si presenta così il palcoscenico aperto, sul quale per due ore e cinquanta minuti non cala mai il sipario, agli spettatori del dramma di Tennessee Williams Un tram che si chiama desiderio allestito da Antonio Latella. Andato in scena a Bolzano in questi giorni per la stagione dello Stabile, lo spettacolo di Latella non manca di provocare. Supportato da una delirante “colonna sonora” rock (ma è l’America che verrà: tutti i brani tranne forse un Lied tedesco, peraltro struggente, sono successivi al 1947, anno in cui andò in scena per la prima volta il capolavoro di Williams) l’allestimento si muove su una sottile linea, tra la fedeltà al testo e un’ardita trasposizione in chiave psicoanalitica. È la protagonista Blanche a ripercorrere il disfacimento della sua esperienza a New Orleans al capolinea del tram del desiderio, nelle due stanzette prive d’intimità dove arriva e in cui vivono la sorella e il grezzo cognato Stanley Kowalski trasudante stereotipa virilità. L’attrito costante tra la poesia e il realismo fanno del testo di Williams uno scandaglio imprescindibile degli angoli più remoti dell’animo umano. E la versione -movimentata come un’accozzaglia di pensieri, emozioni, memorie in un cervello impazzito- messa in scena da Latella, riesce a non deludere, a non stancare, grazie anche all’interpretazione generosa di Laura Marinoni nel ruolo di Blanche e quella coerente di Vinicio Marchioni, un essenziale Kowalski. Applausi dal pubblico bolzanino (qualcuno però non è rientrato dopo l’intervallo: forse erano le luci accese sulla platea a spaventarli o l’apparente oscenità del dramma? chissà). Chi ha scelto di rimanere, non poteva che restare, invaghito dall’inaffondabile testo di Williams, dove si  mette a nudo la fragilità di Blanche, ma anche la nostra, pure se, follemente, dalla follia del desiderio ci chiamiamo immuni, rinchiusi come siamo a difesa nelle convenzioni della razionalità.

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