Music

November 23, 2012

Luzzatto Fegiz 27/11 al Cristallo: “Musica leggera staccata dalla coscienza collettiva”

Marco Bassetti

“Purtoppo alle 18 e 30 ho un bas che mi porta in Rai”. Un bas, detto così all’inglese, ha tutto un suo sapore. Se a salire sul quel bas che porta in Rai c’è Mario Luzzatto Fegiz, be’ quel bas ha proprio un fascino particolare. Luzzatto Fegiz è in Italia il critico musicale per antonomasia, uno che ha fatto la storia del giornalismo musicale, sulla carta stampata, in radio e in tv. Un po’ il Lester Bangs del Bel Paese, uno che in carriera ha recensito circa 2500 concerti e ha una collezione personale di 18 mila dischi, prevalentemente di vinile. Uno che ha scritto le parole per quella spericolata gemma avant-pop anni Ottanta che è “Una sera molto strana” di Giuni Russo. Come uno Aldo Grasso lo può anche odiare ma rimane Aldo Grasso, così di Mario Luzzatto Fegiz si può pensare che non capisca nulla del pop contemporaneo ma rimane pur sempre Mario Luzzatto Fegiz. Martedì 27 il Teatro Cristallo ospiterà il suo spettacolo “Io odio i talent show”. Con un po’ di emozione nella voce e un po’ di fretta per colpa di quel bas che lo porta in Rai, l’abbiamo intervistato.

Per il suo spettacolo ha scelto un titolo molto forte, “Io odio i talent show”. Una provocazione ma è anche un po’ il suo pensiero in merito alla scena musicale odierna, è così?
Sì, è un po’ tutte e due le cose, ma comunque è il pretesto per parlare di tanti altri argomenti. Tutto parte dallo psicodramma di un critico, un tempo molto temuto e autorevole, che improvvisamente, all’età di 65 anni, si rende conto che non conta più niente perché è stato derubato del suo mestiere di critico che è andato spalmandosi dentro i talent show, i televoti e i social network. Quindi, trovandosi contestato dalle varie tifoserie in tempo reale, con i fan che lo mandano a cagare via Twitter, impazzisce perché fondamentalmente è arrabbiato di aver perso il potere. E, mosso da una furia politicamente scorretta che travolge un po’ tutti, si mette a fare varie cose, tra cui un’intervista all’Amoroso, in cui lei confessa di non avere la più pallida idea di chi siano David Bowie, Lou Reed e Jannacci. Al di là di questo episodio, lo spettacolo è l’occasione per tirare fuori aneddoti, racconti, fatti e misfatti raccolti in tanti anni di giornalismo.

Ad esempio?
Nello spettacolo si parla di Francesco De Gregori, ci sono storie di Sanremo… Ma più che annedotica, si tratta di un vero spettacolo teatrale che rivela una parte di me che non sapevo neanche di avere. Gli autori che mi hanno aiutato nella scrittura dello spettacolo, Maurizio Colombi e Giulio Nannini, molti più giovani di me, hanno preso i materiali della mia vita e i miei racconti e hanno messo giù il copione. Un lungo lavoro, faticoso e straordinario.

Qual è, in sostanza, il cuore delle critica che muove ai talent?
Il problema di fondo è che i talent sono una fabbrica di illusi e di frustrati, in un mercato che non è assolutamente in grado di assorbirli anche se fossero bravi. L’approccio alla musica veicolato da questi programmi è molto epidermico e molto effimero, mentre fare musica significa avere una squadra, avere degli autori in grado di produrre con una certa continuità. La logica dei talent è più quella del mordi e fuggi.

Volendo fare l’avvocato del diavolo, nell’epoca di Myspace e dei talent show, è facile accusare la sua posizione di conservatorismo?
Sì, probabilmente è un’dea conservatrice. Ma sto molto attento a evitare quella che io chiamo “Sindrome di Gianni Minà”… perché ai miei tempi le pesche erano più buone, i preservativi non si piegavano… Dietro i miei racconti così divertenti e ameni, ci sono in realtà anche degli argomenti molto seri. Ogni racconto è indicativo di un luogo e di un tempo, primo. Secondo, ogni musica ha pari dignità.

Ecco, ma allora dell’epoca attuale c’è qualcosa che si salva?
Certo, proprio per il principio che ogni musica ha pari dignità. Per dire, io prima di andare in scena, mi ascolto a palla MDNA di Madonna e la Nona di Beethoven. La prima è un esempio di musica che emana odore, ascelle sudate, discoteche, cellulite, eccetera. Musica tamarra che mi piace e mi prende. Mentre Beethoven è al contrario espressione sublime dell’organizzazione del pensiero, un ponte tra questioni estetiche e questioni sacre. Quindi non solo ogni musica ha pari dignità, ma ogni musica ci può salvare dall’ineluttabile. La musica ci porta verso l’eternità, questa è un po’ la conclusione di tutto il discorso. Non esiste musica bella e musica brutta, ma semplicemente musica che va contestualizzata.

Quindi non solo qualcosa che si salva, ma anche qualcosa che ci salva…
Certo. Allora io le dico che, dopo quarant’anni di rock e 5000 concerti, mi piacciono i grandissimi come i Chemical Brothers, come Goran Bregović, come i Gogol Bordello, oppure mi piace il trash come Albano. Tutto quello che c’è in mezzo mi annoia profondamente. Roba anche bella, per carità, ma di cui non me ne frega un tubo.

Ma rispetto all’epoca d’oro, cosa manca alla musica pop di oggi?
Quello che è successo dai Novanta in poi, per ragioni che noi non conosciamo perché se le conoscessimo porremmo rimedio, è che la musica leggera si è staccata dalla coscienza collettiva, mentre negli anni Sessanta-Settanta, e in parte negli Ottanta, l’ha amplificata. La musica leggera è molto più semplice della musica classica, però la marcia in più è data dall’essere specchio della coscienza collettiva, cioè dal raccogliere gli umori e dall’esprimerli come faceva Violetta Parra in Cile. Noi sappiamo bene quale sia la colonna sonora dei Sessanta, dei Settanta e degli Ottanta, ma non sappiamo quale sia quella dei Novanta. Oggi la musica si è talmente diversificata che è impossibile avere una visione unitaria, trent’anni fa la musica riuniva mille persone sotto un titolo, oggi per riunire mille persone c’è bisogno di 700 titoli. Il risultato è un gran casino. I grandi cantautori riuscivano a stare molto vicini alla gente e ne hanno interpretato le ansie e le pulsioni, oggi questo non avviene più. I talent sono uno dei segni della crisi, non solo la causa.

E, per concludere, riusciamo a intravedere delle vie d’uscita?
No, attualmente no.  Anche perché se guardiamo cosa è successo con la musica colta nel Novecento, queste situazioni di stasi possono andare avanti decenni.

 

… dopo una mezzora circa, suona il telefono. Sono a casa, sto armgegiando con le pappe, c’è mia figlia che parlotta in sottofondo… “Chi è?” mi chiede mia moglie. “Luzzatto Fegiz?!?”, rispondo io…

Sì, pronto…
Sì mi scusi, mi sono dimenticato di citare i due musicisti che lavorano con me in questo spettacolo. Roberto Santoro, cantautore one man band, grande presenza scenica e di bellissima voce, e Vladimir Denissenkov che suona il bajan, una fisarmonica cromatica russa. L’ho scoperto in una cantina della CGIL a Milano, anche se in realtà prima di me lo aveva scoperto Fabrizio De Andrè e lo aveva fatto suonare in Anime salve. Un personaggio incredibile, che ha suonato anche con Moni Ovadia… Oltre ad essere bravissimo, ha la stazza di Depardieu e i colori di Zucchero.

Mi veniva il dubbio che questa potrebbe essere una via possibile per “salvare” la musica leggera dalla leggerezza dei talent. Mescolarla col racconto, col teatro, con altre tradizioni culturali…
Sì questa potrebbe essere una strada… Arrivederci, mi scusi se l’ho disturbata…

Un’ultima battuta sullo spettacolo a Bolzano?
Per Bolzano ho preparato dei piccoli inserti in tedesco… la gente non sa che io so il tedesco e che ho fatto il dj a Berlino.

www.teatrocristallo.it

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