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November 21, 2012

People I Know. Daniele Zanoni e il design socialmente utile

Anna Quinz

Daniele Zanoni fa il graphic designer. L’immagine è il suo strumento per lavorare e comunicare. E poi ci sono la capacità di guardare e leggere nel profondo le persone che lo circondano attraverso la vista, il tatto, la gentilezza. Che non è uno dei cinque sensi, ma pare esserlo in Daniele, 36 anni, bolzanino, ipoudente. Gentilezza che si è tramutata anche in una missione personale, visto che per la sua tesi di laurea all’università (iniziata in età già adulta) ha ideato e progettato un linguaggio e una scrittura proprio per chi, come lui, sente poco il mondo esterno e spesso ha più difficoltà a comunicare di chi usa normalmente l’udito e la parola. Un progetto complesso ma importante e bello, che gli è valso anche il prestigioso premio “Compasso d’oro Giovani” una delle massime onorificenze del mondo del design. Perché Daniele, con il suo modo dolce di avvicinare la vita e le cose, e soprattutto le persone, sa che fare qualcosa di buono per gli altri è anche fare qualcosa di bello (è un grafico, l’estetica è il suo mestiere). E la bellezza dei gesti, degli sguardi, dei sorrisi sottili e dei movimenti leggeri fatti nel mondo e per il mondo, sono il linguaggio di questo giovane creativo, forte più di mille parole.

Come sei arrivato, in tarda età, all’università e al design? Cosa facevi prima?

Mi reputo una persona creativa e svolgere ora l’attività di designer è il top per me.
 Devo però ammettere che raggiungere l’obbiettivo è stato piuttosto arduo e lungo. Dopo la maturità, non avevo le idee abbastanza chiare e nonostante questo, mi sono iscritto alla facoltà di architettura all’IUAV. Ho portato a casa qualche esame e non sono andato fino in fondo.
 Insomma, un fiasco (quasi) totale. Di conseguenza, finito il miele, mi hanno rispedito a casa e ho cominciato a svolgere alcuni lavori per racimolare qualche spicciolo, finché dopo un paio di anni mi hanno piazzato come assistente tecnico presso gli uffici regionali. Per carità, non disdegno l’impiego, ma non mi sentivo appagato e mi sono trovato davanti a un bivio: candidarmi per il posto fisso, oppure riprendere gli studi. Come un getto d’aria, ho mollato tutto e ho deciso di riprovarci iscrivendomi alla Libera Università di Bolzano. La scelta mi è costata parecchio, ma almeno sono arrivato alla meta. L’ho presa come una sorta di sfida e una rivincita. Sono stato choosy. (ride)

La tua tesi, è partita da un handicap personale trasformato in stimolo creativo. Come e quanto questo “limite” ti ha cambiato la vita, e come ti ha permesso di vedere e vivere in altro modo il mondo?

Voglio prima anticipare che per la mia tesi mi sono occupato del problema dell’udito – quindi di una tematica sociale – per una questione non solo personale, ma indirizzata/dedicata soprattutto ai miei simili e anche ai normoudenti. Un supporto comunicativo per permettere maggiore coinvolgimento tra le parti. Vivere con un handicap uditivo mi ha aiutato a crescere, ad accettarmi e a sviluppare ulteriormente gli altri sensi, come la vista. Ho il mio mondo, “leggo” le persone e i movimenti della vita quotidiana con gli occhi.

In Alto Adige, nei centri competenti, non si promuove l’uso del linguaggio dei segni. Tu non ne hai bisogno, ma come ti poni rispetto a questa scelta del territorio?

Direi che la questione del linguaggio dei segni è un discorso assai ampio e complesso, anche in senso politico. Senza offesa, ma non condivido l’idea che una persona si limiti a comunicare solo con i segni. Trovo fondamentale il linguaggio verbale, se si vuole tenere un maggiore contatto con i normoudenti e arrivare a una preparazione soddisfacente, tramite servizi come ad esempio la logopedia ed il sostegno scolastico. Certo questo richiede molto più tempo – anni – ed energie rispetto al linguaggio dei segni che si potrebbe eventualmente imparare in un secondo momento. Lo vedo anche come un’opzione per chi non ha avuto i miei stessi sussidi, supporti, sostegno da parte di enti, istituzioni e famiglia. E non solo. A differenza dell’Alto Adige, non tutte le regioni italiane si attivano e non tutti hanno la possibilità di arrivare a un risultato esauriente. Insomma, sono stato molto fortunato e grato a mia madre che mi ha seguito fin dall’inizio.

Cosa ti dà il vivere qui? Cosa ti toglie?

Premetto che durante il periodo accademico ho avuto modo di viaggiare molto e in svariati posti, in America e in Europa, per vacanza, studio, lavoro. Questo mi ha permesso di arricchirmi, allargare la visione di quello che c’è nel mondo, in senso sociologico, culturale e attraverso il design e infine, di confrontarmi con il territorio altoatesino. Personalmente, l’Alto Adige mi sta un pochino stretto, ma in compenso ha delle ottime qualità e offre molto: buon cibo, bellissimi paesaggi, un buono standard di vita. In fin dei conti, ogni paese ha i suoi pro e i suoi contro.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro, i tuoi sogni?

Sposarmi. (ride)

Pubblicato su Corriere dell’Alto Adige del 18 novembre 2012 

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