Music

November 6, 2012

Simone Cristicchi e le Sorelle Marinetti al Cristallo con Poker di swing, l’intervista

Marco Bassetti

Simone Cristicchi pare si sia comprato il frac, ma non la tuba. Perché, racconta l’arista romano, “con questi capelli non saprei proprio come portarla”. Sì perché, quando il repertorio è quello dello swing italiano degli anni Trenta, l’abito diventa importante. Con “Poker di swing” Cristicchi porta sul palco canzoni dal sapore d’antan come “Ma le gambe”, “Il pinguino innamorato” e “Maramao perché sei morto”. Le Sorelle Marinetti rispondono a modo loro, proponendo le canzoni di Cristicchi in salsa swing. Il gioco pare intelligente ed esilarante al tempo stesso, un gioco di specchi tra passato e presente, tra racconto e musica, sul sottile filo della memoria. Con il primo spettacolo della rassegna “Racconti di musica” di quest’anno (questa sera, ore 21), il Teatro Cristallo porta a Bolzano uno dei cantautori più interessanti della nuova generazione. Un artista a tutto tondo che quando pensi di averlo incasellato è già altrove, impegnato anima e corpo in un altro progetto. L’abbiamo contattato.

Nel corso della tua carriera ci hai abituato a diversi stili, a diversi personaggi, a diversi Simone Cristicchi, a cavallo tra musica e teatro. Con questo spettacolo ci porti negli anni 30-40 dello swing italiano, come è nata questa idea?
Diversi miei spettacoli hanno come comune denominatore una ricerca sulla memoria. L’ultimo lavoro che ho fatto è stato “Mio nonno è morto in guerra”, in cui ho raccontato storie e aneddoti legati alla Seconda guerra mondiale attraverso la voce degli ultimi reduci viventi che sono andato ad intervistare in tutta Italia. “Poker di swing” è nato da un’idea del manager delle Sorelle Marinetti, Giorgio Bozzo, per creare un contrasto e una contaminazione tra generi distantissimi, anche temporalmente, come la musica pop di oggi e il repertorio del Trio Lescano. Il gioco mi sembra molto interessante, io che canto il repertorio dell’epoca e le Sorelle Marinetti che cantano i miei brani più conosciuti. Sul palco si crea questo scontro amorevole tra noi, ci prendiamo in giro come se volessimo parteggiare ognuno per la propria epoca. L’effetto è esilarante, ci divertiamo molto.

Schiacciati in un presente per molti versi confuso e incerto, incapaci di immaginare il futuro e spesso immemori del nostro passato, perché è importante lavorare sulla memoria?
Una volta un signore mi disse “La memoria è il campo di battaglia dove si combatte per l’eredità”. La memoria è un’eredità che dobbiamo saper raccogliere, la storia è qualcosa che ci riguarda da vicino. “Maramao perché sei morto” la cantano anche i bambini, ma pochi sanno che la canzone all’epoca fu censurata perché si pensava che prendesse in giro la morte di Costanzo Ciano, ministo sotto il Fascismo e padre di Galeazzo Ciano. Dietro ogni canzone, dietro ad ogni espressione artistica c’è una storia che a me piace andare a riscoprire. In “Poker di swing” si affronta attraverso le canzoni un periodo importante della nostra storia, per provare a capire cosa è stato il Fascismo per l’Italia. Un periodo in cui le canzoni che avevano un doppio senso venivano censurate, un periodo in cui non ci si poteva dare nemmeno del tu tra marito e moglie ma ci si dava del voi, un periodo in cui le donne non avevano il diritto di voto… Un periodo che per i nostri nonni è stato molto faticoso, molti di loro ci hanno rimesso la pelle.

In questo confronto/scontro tra canzoni del passato e canzoni del presente, si può leggere in controluce la nostra realtà odierna. In questa prospettiva, in rapporto a quel periodo là, non ce la passiamo poi male, no?
Le differenze sono naturalmente tantissime. Pensiamo ad esempio che all’epoca esisteva una sola stazione radio che passava tutto, dai comunicati politici come l’annuncio di Badoglio dell’8 settembre alle canzonette. Oggi invece siamo bombardati da informazioni attraverso una grande molteplicità di canali, le possibilità di scelta sembrano infinite. Ma a volte sembra che avere tutte queste scelte equivalga a non averne nessuna, abbiamo Youtube, abbiamo Facebook, abbiamo Twitter, ma alla fine dei conti è come se non ti rimanesse niente tra le mani. C’è chi ricorda l’epoca del Fascismo addirittura con nonostalgia, ogni epoca ha le sue luci e le sue ombre e a me non piace avere una visione troppo unilaterale. Certo bisogna prendere atto che i nostri nonni hanno combattuto perché noi potessimo essere liberi, liberi persino di rovinare il nostro stesso paese.

A proposito delle mille possibilità offerte dal mondo odierno, oggi un cantante per emergere può passare attraverso un programma televisivo. Nella rassegna in cui è ospitato il vostro concerto, è presente anche lo spettacolo di Mario Luzzato Fegiz dal titolo “Io odio i talent show”. Tu come vedi questa cosa?
Io non li odio, mi dispiace però che siano diventati l’approdo quasi unico di chi voglia fare questo mestiere, l’approdo di tanti che vedono la felicità nel successo facile. Io credo invece che il vero successo sia essere felici di quello che si è e di quello che si fa. Spesso succede poi che molte persone che escono dai talent show, dopo un periodo di grande esposizione mediatica, siano costretti a tornare ai loro lavori precari e diventino degli infelici. Mi dispiace anche perché molti locali, dove gli artisti potrebbero farsi le ossa, stanno chiudendo. O chiudono o puntano sulle cover band per garantirsi un vasto pubblico, mentre i ragazzi che propongono cose inedite si vedono tagliate le gambe, faticano molto di più di dieci anni fa. Nei talent show emergono artisti anche di grande talento, come Mengoni, come Noemi, come Giusy Ferreri, come Emma… Ma non è quello il problema, il problema sono tutti gli altri che devono tornare ad una vita normale.

Tu stesso ironizzavi in una tua nota canzone sulla difficoltà di emergere come cantante, preservando la propria identità. Era il 2005, i talent show non erano ancora così diffusi in Italia e, infatti, tu la gavetta l’hai fatta tutta, passo dopo passo, senza scorciatoie…
Sì e oggì, dopo più di dieci anni, non posso certamente dire di essere un’artista che riempie i palasport come Biagio Antonacci, probabilmente mai ci riuscirò. Non posso neppure dire che mi sento appagato di quello che ho fatto, sono sempre alla ricerca, sempre in evoluzione. Passo dal teatro, alla musica, alla radio, alla scrittura di libri. Posso dire che sono contento dei progetti che ho portato avanti perché ci ho creduto molto e fortunatamente posso contare su un pubblico che mi sostiene anche nelle mie scorribande extra-musicali, come questa con le Sorelle Marinetti.

Una cosa, infatti, mi ha sempre sorpreso del tuo personaggio e della tua proposta musicale, la grande poliedricità. Una multiformità che, inserita sempre all’interno di una cifra stilistica unica e riconoscibile, spiazza sempre perché non lascia intravedere dei modelli. Escludendo i modelli più seguiti dai cantautori di oggi, i Battisti, i Battiato, i De Gregori, riusciamo a ricostruire la tua particolare genealogia artistica?
Io penso di essere un artista non tanto per i dischi che faccio, ma per il palcoscenico. Il mio mestiere, quello che so fare meglio è stare sul palco a raccontare delle storie. Per questo il primo artista che mi viene in mente è un vero maestro del palcoscenico come Giorgio Gaber, l’inventore del teatro canzone. Il secondo nome che mi viene da fare è quello di Gigi Proietti, altro grandissimo artista del palcoscenico, un solista straordinario come ce ne sono stati pochi in Italia. Per arrivare, infine, a Marco Paolini, massimo esponente insieme a Gabriele Vacis del teatro civile, del teatro di narrazione in Italia. Io sono uno degli ultimi attori che si sono inseriti in questo filone, un filone che si ricollega al nostro discorso iniziale sulla memoria. Ho molto a cuore il ruolo di artista come tramite tra il passato e il presente.

www.teatrocristallo.it

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