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November 6, 2012

London Fog #01. Meet Orhan Pamuk @ Southbank Centre

Cristina Vezzaro
È vero. Quasi te lo dimentichi che questo giovane signore che incede con passo leggero e baldanzoso è un premio Nobel per la letteratura. Sembra esserselo dimenticata anche Londra, che è accorsa, sì, ma non in massa per ascoltare la presentazione del suo secondo romanzo, La casa del silenzio, mai tradotto in inglese.
Ci abitiamo accanto, al Southbank Centre, e appena vedo che stasera c’è lui a parlare mi ritengo impegnata: la sua storica traduttrice inglese è una cara amica e mi sembra l’occasione perfetta per vederla. Salvo che questo libro lo ha tradotto un nuovo traduttore, quindi poi alla fine non sarà così. Dal susseguirsi delle domande e dal modo in cui affronta la conversazione capisco che non deve essere affatto semplice tradurre Pamuk; lavorarci insieme. Soprattutto verso una lingua che lui conosce bene come l’inglese. D’altro canto Pamuk riconosce molto ai suoi traduttori, ne parla ripetutamente, riconosce che sono loro a riscrivere i suoi libri in un’altra lingua.
Ma un figlio rimane un figlio, e Pamuk racconta come debba mettere in moto tutta la catena ufficiale per far sì che scenda su di lui la giusta pressione che lo porta a un certo punto a lasciare andare le sue creature e a prendersela addirittura: “Certo avrei scritto un capolavoro ma la casa editrice me l’ha rubato di mano!”
È ironico, Pamuk, ha un grande senso dell’umorismo, ha guizzi di genialità, che l’intervistatore non riesce quasi a interrompere, in questo lungo monologo che fa in palcoscenico. O dialogo?
“A 31 anni ho scoperto che ciascuno di noi non intrattiene con se stesso un monologo interiore, ma piuttosto un dialogo, in reazione e in relazione ad altro, immagini o situazioni che ci circondano o pensieri relativi ad altre persone. Così parlano i miei personaggi.”
Ci legge anche le ultime righe del romanzo: “I miei libri sono libri d’atmosfera, non c’è pericolo che scopriate chi è l’assassino.”
E ancora: “Scrivo per immagini, sono uno scrittore visivo. Ci sono scrittori verbali, che ti trascinano dentro l’immaginario tutto verbale che creano, ma alla fine ti risulta difficile ricostruire una sensazione; gli scrittori che scrivono per immagini risuonano sempre e lasciano impressioni più vivide.”
Non mancano, in sala, le proteste che sempre sembrano accompagnarlo. “Non ho mai scritto letteratura politica; trent’anni fa, all’indomani del golpe, stavo per scrivere un libro profondamente politico, ma mi sono trattenuto alla fine perché non era il caso, l’ho messo in un cassetto e ho scritto quest’altro romanzo, La casa del silenzio, una storia familiare. Sono sempre state le mie interviste, i miei interventi pubblici a causarmi problemi a livello politico”, dice mentre punta l’indice verso l’intervistatore e con un sorriso lo ammonisce “Fai attenzione!”.
In realtà l’intervistatore quasi non riesce a parlare, mentre al momento in cui si levano dalla sala le domande non mancano gli oppositori politici che gli ricordano il problema del Kurdistan e dei detenuti politici. Pamuk schiva le domande, dicendo apertamente che non intende parlarne. E la fine dell’incontro è di nuovo interrotta da una donna che da mezza sala gli urla qualcosa e poi se ne va via. Il resto dei presenti sarebbe pronto a protestare ma lui, visibilmente turbato, dice: “Rispettate la sua rabbia.”
Il suo turbamento parla della responsabilità dell’intellettuale, da un lato, e dell’impossibilità di rispondere personalmente di azioni altrui, dall’altro. Parla di chi nella letteratura trova il modo di dire tutto ciò che pensa senza poter prescindere dalla storia sua, del suo paese e dal contesto in cui vive. E parla della necessità di difendere la propria incolumità personale.
Chissà di che umore era, Pamuk, mentre firmava le copie del suo libro. Non mi sono fermata, volevo riportare a casa i bambini che reagivano con curiosità alle risate in sala, agli applausi, alle urla, mentre leggevano i loro libri. Chissà se si ricorderanno, tra anni, “di quella volta che la mamma a Londra ci ha portato a sentire quel premio Nobel”.

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