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October 31, 2012

Rudi Ricciotti: “Le béton peut inspirer l‘effroi ou toucher au sublime”

Barbara Breda

Le parole che compongono l’enunciato della conferenza organizzata dalla Fondazione Architettura Alto Adige con il supporto della ditta Progress, tenuta dal celebre architetto francese Rudy Riccotti lo scorso 11 ottobre 2012, “Il calcestruzzo può ispirare terrore o toccare il sublime”, ricordano quelle con cui un grande maestro descrisse gli obiettivi più alti dell’architettura:

“Architettura è stabilire rapporti emozionali con materiali grezzi. L’architettura è il fatto plastico. La passione fa di pietre inerti un dramma.”

Le Corbusier, Vers une architecture

Saper emozionare, quindi. Non si tratta solamente della forza e del modo in cui Ricciotti plasma, come una scultura, il calcestruzzo, ma anche, forse soprattutto, del modo in cui il sapiente uso del materiale nel disegno delle facciate determina differenti relazioni e percezioni fra lo spazio interno all’edificio ed il mondo esterno.

Si tratta ancora delle relazioni che l’edificio instaura con il contesto in cui va ad inserirsi. Ogni progetto si radica al sito secondo rapporti che enfatizzano il carattere preesistente o semplicemente vi si aggiungono, quasi mimetizzandosi, armoniosamente.

Da cosa nasce ogni suo progetto, da dove arriva l’ispirazione? Da cosa partire per trovare una soluzione progettuale ad un tema proposto?

Innanzitutto non sono un artista. Sono molto distante dal ricercare l’ispirazione.

La cosa che mi interessa sapere è la capacità di risposta che un contesto racchiude in sè stesso. Se il “corpo” del contesto ha dell’energia, è in salute, allora cerco di fare un lavoro più che altro di umiltà, trattenendomi, stando a distanza, lavorando sull’eliminazione. Ci presto molta attenzione. Se il “corpo” è invece molto malato, si è obbligati, bisogna metterci più energia, cercare di reinventare le forme, la trama, la narrazione, di trovare dell’onirismo. Al concetto di contesto è molto legato quello della circostanza. Contesto e circostanza: si tratta di lavorare sulle due cose.

Definisce la sua architettura realizzata in calcestruzzo come architettura low-tech, in contrapposizione alla più gettonata high-tech. Può essere questa una nuova svolta per un’”economia del costruire”, legata al concetto di sostenibilità?

Penso che l’high-tech sia qualcosa di sottosviluppato. Quello che si definisce high-tech è “gesticolazione”, una finzione basata su un livello tecnologico molto povero, è una mistificazione, fatta di materiali molto ricchi, molto costosi con un’impronta ecologica molto alta. Quello che invece io cerco di fare è l’opposto: lavorare in un modo più evoluto la materia “povera”, dandogli uno “spessore” ingegneristico molto elevato. E non l’opposto. Per il metallo è l’inverso: è un materiale molto ricco e molto caro in termini ambientali. Molto caro, e con una “gesticolazione scientifica” bassissima. Perché una trave reticolare in metallo a partire dal XIX secolo non si è evoluta. E’ qui che dobbiamo progredire.

Quali sono, se ci sono, i limiti del calcestruzzo?

Mi sono posto anche io la questione. Quello che posso dire è che il calcestruzzo è una “madre buona” che perdona tutto. L’acciaio non perdona nulla; è senza tolleranza: o è giusto o è sbagliato. Il calcestruzzo è “gentile”, perdona molti errori.

Lei si definisce un architetto reazionario, manierista. Cosa intende?

Con reazionario intendo dire che mi oppongo alla modernità. Qualcuno che mette in dubbio i valori e la memoria della modernità. E manierista in quanto in grado di lavorare manipolando la doxa, il sapere della modernità, senza vergogna. Bisogna recidere il legame con la modernità. La modernità è un progetto che porta alla morte.

Nei 33 anni di lavoro vi è stata una evoluzione, un cambiamento anche nel modo di fare esprimere i progetti?

Sì, certamente, sono cambiato. Quando ho fatto lo Stadio di Vitrolles, la Salle du Rock, dissi che non si doveva mirare all’estetica, estetizzare era un errore.

Oggi dico l’opposto: bisogna assolutamente estetizzare se vogliamo salvare il mondo e provare ancora piacere nell’architettura.

Articolo di Barbara Breda e Emanuela Schir pubblicato su Corriere dell’Alto Adige del 28 ottobre 2012

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