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October 22, 2012

New York Stories #06. Music scene

Cristina Vezzaro

Con due amiche mi do appuntamento all’Avery Fisher Hall del Lincoln Center, tempio della musica sinfonica newyorchese. Dopo la fine dei lavori, dalla metropolitana si raggiunge addirittura la sala da concerti attraverso un tunnel diretto che sbuca davanti alle casse dell’ingresso. Rapidamente prendiamo posto per il cosiddetto preconcert recital, sorta di fuoriprogramma gratuito che sempre caratterizza i concerti, qui, e che è una sorta di incontro ravvicinato con il solista, nel nostro caso il pianista Rudolf Buchbinder. Al termine del brano ci avviamo quindi verso i nostri posti augurandoci di non ricapitare davanti alla testa esageratamente cotonata o al vicino che con il programma batte il tempo, e siamo fortunate mentre dal palchetto ci godiamo un ottimo Mozart e la Grande di Schubert constatando ancora una volta come i fiati siano deludenti da questa parte dell’oceano, anche nell’orchestra del Festival Mostly Mozart, ma ci consoliamo alla fine con un grande Buchbinder in un concerto di Beethoven che ci rallegra fino al momento di lasciare la sala pop del Lincoln Center.

Solo qualche giorno dopo mi sposto nel West Village per un piacevolissimo pranzo in compagnia di due amici scrittori e un pomeriggio al cinema dell’IFC, mentre scopro che al Blue Note si sono dati appuntamento per una serata che si preannuncia indimenticabile i cosiddetti “Enfants Terribles”, quattro mostri sacri del jazz che a vederli tutti insieme ci vuole una bella fortuna: il sax di Lee Konitz, la chitarra di Bill Frisell , il basso di Gary Peacock, e la batteria di Joey Baron. Tranne quest’ultimo, li ho già sentiti suonare tutti, da Bolzano a Umbria Jazz a New York, ma tutti insieme fanno il loro effetto, mentre con scioltezza si muovono tra pezzi loro e rivisitazioni pressoché irriconoscibili di standard (“She’s not for me” di Gershwin che ho anche appena sentito a Broadway). L’unico grande problema del Blue Note continua a essere l’ammasso impossibile di tavoli e persone e bicchieri e piatti. Ma questa volta sappiamo trasformare un problema in opportunità mentre conversiamo amabilmente tra appassionati di jazz dal Giappone alla California passando per me europea.

E infine, qualche giorno dopo ancora, ci spostiamo a Harlem, sulla 125a, per assistere alla storica Amateur Night dell’Apollo Theater, un tutto esaurito in cui a colpi di fischi o applausi si determinano i futuri Michael Jackson. Arrivo che il mio cellulare è quasi scarico e con l’aiuto di una maschera riesco a caricarlo fino a quando torna e mi chiede “Were you able to get juice?” e ancora una volta mi dico che viaggiare è il modo migliore per imparare una lingua. Un DJ scalda l’audience in attesa del presentatore, comicissimo nella migliore tradizione americana, e soprattutto dei concorrenti, che tra ballo, canto e musica si contendono il premio di migliore della serata. Arrivano fin dal Giappone, fin dalla Cina o più semplicemente dal vicino New Jersey, portandosi dietro amici e famiglia per il tifo d’obbligo e per quanto coraggiosi, c’è un pubblico senza pietà a giudicarli. La serata è forse un po’ troppo lunga, ma comunque gustosa, mentre all’uscita la vita continua in un quartiere che si sta, slowly but surely, adeguando al resto di Manhattan.

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