Music

October 5, 2012

Il rock sperimentale dei Controfase alla Giornata del contemporaneo, l’intervista

Marco Bassetti

La sperimentazione musicale dei Controfase, all’incrocio tra elettronica, post rock e ricerca contemporanea, incontra le parole e la voce di Pietro Frigato, ricercatore di economia politica e autore di numerosi saggi. L’album Rispettabili criminali e comuni mortali, fresco di stampa, documenta questo incontro: un’opera densa, stratificata, ambiziosa, feroce in quel suo sforzo di incastrare dentro una forma austera, analitica, compiuta, il tragico dell’esperienza contemporanea. Lo schema interpretativo principale, non estraneo ai movimenti di lotta passati e presenti, è offerto dal titolo stesso: un mondo spaccato in due, diviso in “buoni e cattivi” come in un buon vecchio film western: da una parte i “rispettabili criminali”, espressione dei poteri forti, dall’altra i “comuni mortali”, soli, schiacciati dal grande ingranaggio, spaesati, inermi.

L’album, dal punto di vista musicale, s’inserisce in maniera convincente nell’alveo della tradizione del rock sperimentale, riuscendo a coniugare in maniera sapiente e originale immediatezza rock e ricerca contemporanea, un certo gusto minimale per l’elettronica e ricordi sparsi della wave più oscura. Ma, nell’economia del disco, sono le parole di Frigato ad assumere il peso maggiore, non solo in ragione della centralità del testo, ma anche e soprattutto in virtù di uno stile prosodico e di una grana vocale imponenti, marmorei, glaciali, non distanti, per certi effetti, all’assoluta intensità ferrettiana (nel senso di Giovanni Lindo, naturalmente).

Sabato 6 ottobre, nell’ambito della Giornata del contemporaneo (ore 20, Centro per la cultura, Merano), sarà l’occasione per ascoltare il nuovo album dal vivo. Ne abbiamo parlato con Andrea Beggio (basso ed elettronica) e Pietro Frigato (testi e voce), membri dei Contofase accanto a Barbara Schindler (arpa), Emanuele Zottino (chitarra e oggetti) e Marco Ober (regia del suono).

Al termine del disco, quello che si percepisce è uno sforzo immane, titanico di leggere la nostra epoca “liquida” e di inquadrarla entro una forma “solida”, sforzo continuamente frustrato, sforzo continuamente rilanciato in una sorta di dialettica negativa, senza sintesi possibile. È così?

A.B. Diciamo che tormentiamo i nostri pezzi non poco fino a fargli assumere una forma per noi ideale. La Scuola di Francoforte criticava le istituzioni del capitalismo perché alienavano e deprivavano l’uomo contemporaneo. Gallino ci offre degli esempi concreti di come il tentativo di ridurre sempre più all’osso il costo del lavoro, considerandolo sempre più come una merce, produca ricadute devastanti sulle vite individuali. Fatti critici, come dire.

P.F. A me pare che la nostra epoca e le nostre società non abbiano nulla di liquido. Regioni, stati, mercati, cartelli e imprese giganti non sono organizzazioni fluide. Sono tendenze in atto da un secolo. A Taranto, ma anche a Bolzano, con ovvie differenze, si produce acciaio inducendo morti e malattie evitabili. Ma così sono un po’ tutte le acciaierie, i petrolchimici, le cartiere. I rischi associati alle attività e ai prodotti industriali sono copiosi e diffusissimi. La situazione non è poi così migliorata da come si lavorava trenta o più anni or sono. Lo sfruttamento dei lavoratori, la manipolazione sistematica dei consumatori, la concentrazione tecnica e finanziaria nelle principali branche dell’economia capitalistica sono fenomeni solidissimi, radicatissimi, incredibilmente trascurati. Sono “solo” calati drammaticamente da inizio Novecento i costi di trasporti e gestione delle informazioni per le imprese, ed è crollato il comunismo. Ci si becca dei Sessantottini a dire queste cose. La Scuola di Francoforte diceva che la razionalità formale dell’impresa e del diritto statuale è una finta razionalità che calcola in modo sbagliato, da un punto di vista dell’utilità sociale, i costi e i benefici dei processi socio-economici capitalistici. Questo errore di base permette di occultare importanti perdite collettive e di manipolare di conseguenza le coscienze individuali.

In questa situazione di “crisi della rappresentazione”, tanto sul piano estetico che su quello politico, ecco allora che i riferimenti si aprono, si sovrappongono, si mescolano, si confondono… l’elettronica, la contemporanea, il rock industriale, il post-punk, l’arpa e la chitarra elettrica… La mescolanza di alto e di basso diventa cifra stilistica per rappresentare il nostro inferno odierno?

P.F. Abbiamo combinato esperienze, livelli di preparazione, competenze e sensibilità musicali e culturali molto diversi all’interno del nostro gruppo. Anche sul piano musicale l’idea è quella di combinare suoni, note, rumori se vuoi per rappresentare il nostro inferno odierno, ma anche per insistere sull’idea che la musica che facciamo utilizza moduli, suoni reiterati e li intreccia cercando di ottenere una dinamica emergente. Un po’ come la realtà: tutto sembra a tratti rimanere uguale ma, di fatto, continua a evolversi, a cambiare.

A.B. Se come “crisi della rappresentazione” intendi l’assenza di una componente politica nel linguaggio artistico, direi che nel nostro caso è fin troppo evidente la presenza di un messaggio politico nei testi e nella musica. A livello musicale abbiamo cercato fin da subito di rompere le icone musicali ricorrenti sia nel genere “colto” che in quello “commerciale”, cercando per esempio di suonare delle composizioni basate su processi come fossero pezzi rock o di utilizzare frammenti di musica classica (Mozart per “Diario postumo” e Chopin per “Antongiulio”) e farli vibrare trasformati nel presente insieme all’elettronica.

Dal punto di vista testuale, l’opera trova un centro tematico nel mondo del lavoro. Perché questa scelta?

A.B. La Costituzione valorizza il lavoro all’articolo uno e nella parte sui diritti economici. Ma se uno ci guarda sembra tutta roba superata: oggi viene messo in discussione il diritto di sciopero, Fiat decide impunemente e unilateralmente di non rispettare il contratto collettivo di comparto, le imprese combinano disinvoltamente cassa integrazione e straordinari. Anche le insopportabili e ricattatorie forme di precariato che oggi colpiscono indiscriminatamente giovani e over 50 in modo sempre più diffuso testimoniano una fase di forte aggressività delle imprese e dei mercati. Questa demolizione dei diritti dei lavoratori è alla base dello svuotamento dell’idea di progresso delle socialdemocrazie. Il lavoro oramai non può realizzare le persone ma serve come puro mezzo di sussistenza, spesso al costo, per il lavoratore e la sua famiglia, di rischi di malattia e morte prematura per le esposizioni a rischi lavorativi.

P.F.  Non credo sia il lavoro il centro tematico. Certo, richiamiamo un articolo di Gallino del 2002 sulla precarietà, parliamo dei rischi di fascistizzazione istituzionale e involuzioni autoritarie che si accompagnano alle depressioni economiche come quella attuale e in “Antongiulio” parliamo degli incidenti mortali sul lavoro. Ma, in realtà, il concetto di fondo dell’album è la manipolazione, l’uso strumentale e cinico delle informazioni a fini di profitto o di potere. La manipolazione consente la gestione relativamente pacifica della disoccupazione, della povertà e della morte di massa. Una mano invisibile e impunita che tutto rende all’apparenza ragionevole e comprensibile, per non dire innovativo e progressista. La flessibilità, introdotta col beneplacito della cosiddetta sinistra negli anni Ottanta e Novanta, non veniva chiamata precarietà lavorativa o “impiego instabile”, come di contro facevano già gli economisti del New Deal negli anni Trenta. C’è voluta la devastazione di un’intera generazione perché, dopo più di vent’anni, si iniziasse a far circolare ridicoli distinguo e incredibili cazzate sulla necessità che la flessibilità non si trasformi in precarietà.

Il ritratto che emerge dal vostro lavoro è tutt’altro che rincuorante. L’analisi è spietata, fredda, dettagliata, basata su dati, articoli di giornale, saggi di sociologia come il capolavoro di Canetti “Massa e potere”. Qual è la diagnosi e, se c’è, qual è la cura? Compito dell’arte non è forse, oggi più che mai, indicare una direzione?

P.F.  Viviamo in società strutturalmente malate sul piano organizzativo. Gli stati, le regioni, le imprese sono burocrazie killer. La massa delle persone, in mano a colletti bianchi bene organizzati e che utilizzano ogni conoscenza tecno-scientifica in modo strumentale ai loro scopi di guadagno o massimizzazione di voti, è offesa e umiliata in ogni modo che risulti conveniente agli imprenditori economici e politici. Non ci sono vie di uscita: guardati che bella costellazione di silenzi, omissioni, qualche riunione fasulla con sindacati e vertici dell’ILVA ha messo su Tricky Vendola, presidente della Giunta regionale Puglia. È un comportamento modulare, la regola è la seguente: le imprese fanno finta di bonificare e ridurre i livelli di rischio (se dovessero fare sul serio, i loro azionisti di maggioranza investirebbero in rami finanziari o industriali più profittevoli), i verdi, i rossi e quanti altri fanno finta di opporsi all’inquinamento evitabile. E’ uno schema idealtipico che è soprattutto realtipico e che permette equilibri accettabili basati su massacri collettivi.  Tricky Vendola lo ha adottato come hanno fatto e fanno, di regola, politicanti verdi e finti umanisti di varia estrazione. L’arte è per larga parte incorporata nei meccanismi di cui dicevo. Contano i contratti, si pianifica e si produce per il mercato senza creare disturbo ai politichetti locali o nazionali. Con svariate ma minoritarie eccezioni.

A.B. La via che i nostri testi sembrano indicare, anche se non per volontà esplicita, è quella della conoscenza del lavoro di chi questi temi li ha studiati ed analizzati scientificamente. Lukács sosteneva che il compito dell’arte è “rappresentare la realtà cogliendo il “tipico” di un determinato scenario storico sociale”. Nel nostro scenario storico-sociale le tematiche legate al precariato diffuso, alla salute pubblica, all’industria culturale appartengono alla categoria del “tipico” indicata dal filosofo ungherese.

Sebbene la parola occupi un ruolo di primo piano nel vostro lavoro, si evita molto bene il pericolo del “reading” che appare talvolta dietro l’angolo. Scorgete anche voi questo come un pericolo?

P.F. Volevamo proprio evitare la confusione coi reading. Noi facciamo musica e la musica e le parole hanno la stessa importanza per noi.

A.B. Il rischio di fare del “reading” è sempre in agguato, cerchiamo di proteggerci costruendo brani che abbiano un senso compiuto anche da soli. Anche le musiche devono avere una dignità propria e non scadere nel ruolo di sottofondo musicale al testo.

L’album si chiude con una desolata “Love will tear us apart”, canzone in cui la rassegnazione raggiunge la sua massima rappresentazione in ambito rock, prendendo il sopravvento sulla rabbia del punk. È questo, oggi, il vostro sentire?

A.B. “Love will tear us apart” è prima di tutto un bellissimo brano dei Joy Division che ci andava di riproporre stravolto a modo nostro.

P.F. Sì, una rassegnazione amara, non cinica, mi pare l’atteggiamento normale di chi ha provato a capire e anche, per periodi non brevi, a contribuire a correggere o eliminare fenomeni vistosi di ingiustizia sociale. È brutto vivere senza la speranza di vedere un mondo migliore. Allo stato attuale, tuttavia, non esistono elementi per sostenere che il meccanismo satanico del mercato che stritola la natura, il pianeta, la società sia correggibile e arrestabile. “Love will tear us apart” ha un testo bellissimo e terribile, l’amore è un elemento che non può evitare di essere distruttivo. Ciò detto, si può vivere lo stesso, per fortuna io riesco a ridere e scherzare spesso, e non riesco a prendermi sul serio.

www.controfase.it

Print

Like + Share

Comments

Cancel reply

Current day month ye@r *

Discussion+

There is one comment for this article.

Archive > Music