Culture + Arts > Visual Arts

October 5, 2012

Dolomiti Contemporanee: idee che sembrano impossibili, diventano possibili

Anna Quinz

Dolomiti Contemporanee è un laboratorio di arti visive in ambiente, nato nel 2011 nel cuore delle Dolomiti, patrimonio dell’Umanità. Non facile impresa, portare l’arte e per di più contemporanea lassù tra le montagne, eppure, fin dalla sua nascita il progetto nato, pensato, realizzato dalla mente creativa ed attiva di Gianluca D’Incà Levis è riuscito ad imporsi nel panorama internazionale, che è stato costretto a guardare non più ai grandi centri della cultura, ma verso le vette. A premiare Gianluca e il suo lavoro, prima di tutto le persone che hanno affollato i luoghi dolomitici da lui rimessi in attività dopo lunghi periodi di vuoto. Ex fabbriche ex scuole, ex cose che nelle sue mani esperte hanno riavuto indietro la loro vita. Grazie ad artisti e curatori, grazie alla qualità dei progetti e delle scelte, Dolomiti Contemporanee ha spostato i centri dell’arte, li ha spostati lì dove prima c’era quasi solo turismo montano, sci, scalate e passeggiate tra i prati. Così, nel bellunese, un nuovo polo di produttività, vera, reale, sul campo, che non passa solo per il “far vedere”, ma anche e sopratutto per il “fare da zero, con le proprie mani”.
Parlo telefonicamente con Gianluca, che con il suo accento tipicamente veneto e le sue parole attente, entusiaste e competenti, mi racconta genesi e progressi di un progetto che di certo è ormai nella scena – nazionale e internazionale – dell’arte, un esempio virtuoso dal quale imparare.

Portare l’arte contemporanea tra le vette delle Dolomiti. Cosa significa, cosa comporta?

Al centro del progetto, nato 13 mesi fa, c’è l’arte contemporanea, o meglio una ricognizione sulla giovane arte contemporanea in Italia e all’estero. Le Dolomiti del nome del progetto sono da intendersi come contesto territoriale non stretto né esclusivo. In realtà si tratta di una precisa scelta culturale di antagonismo rispetto alla pretesa egemonia – nell’arte – dei centri metropolitani. L’arte contemporanea non si deve per forza fare a Milano o a New York, si può fare in tanti posti, e “de-localizzato” non vuol affatto dire periferico, tantomeno provinciale, se si lavora sulla centralità della qualità dei contenuti. E le Dolomiti attivano pratiche di ricerca analoghe a quelle della ricerca artistica. Credo che per alcuni versi l’alpinista sia molto simile all’artista: entrambi compiono una ricerca verticale, e lo spazio della montagna consente di introdurre una serie di riflessioni appunto sul tema del “dove fare arte oggi”.  È interessante attivare luoghi altri, e un progetto è buono in virtù  della sua qualità intrinseca e non per la posizione geografica o geopolitica che occupa. Certo è che, nonostante il contesto dolomitico, così fortemente caratterizzato, non cerchiamo alcuna contemplatività vernacolare. A Dolomiti Contemporanee non si viene per scolpire una stella alpina, ovvero per cavalcarte placidamente uno stereotipo montano; al contrario, si viene perché ci sono spazio ed elementi giusti per fare cose nuove che altrove sarebbe impensabili.

Una particolarità del progetto è la scelta dei luoghi in cui si sviluppa.

Qui in mezzo a queste montagne, si mettono in gioco elementi diversi dall’ordinario del sistema arte. Uno è appunto il recupero di risorse poco utilizzate, focalizzando l’attenzione su siti industriali con buone caratteristiche di utilizzo depressi, frustrati, in disuso. Un anno fa abbiamo riaperto un sito produttivo chiuso da 20 anni, e nessuno ci credeva. Eppure, è stato rilanciato attraverso l’arte, troppo spesso considerata un’attività eterea e teorica, non pragmatica. Invece in quel luogo dimenticato abbiamo portato 10.000 persone in tre mesi… e dopo anni di vuoto, appena ce ne siamo andati (non abbiamo budget per attivare i siti in modo stabile), sono ricominciate le transazioni commerciali e il luogo è stato parzialmente riattivato. Questo è un altro elemento forte che caratterizza la nostra impresa culturale, evidenziando il fatto che l’arte può saper essere non solo bella, ma anche utile.

Un progetto di questa portata, è certamente impegnativo, anche in termini economici. Come è composto (e retribuito) il gruppo di lavoro?

Dolomiti Contemporanee è un progetto no profit che ho ideato e costruito io, che sono l’unica figura stabile. Non disponendo di un budget commisurato, si lavora con volontari. Non mi ritengo però uno che “sfrutta” la forza lavoro giovane. Tutto il progetto è impostato in modo professionale, è tutto molto curato dalla progettazione alla comunicazione, anche se non c’è un gruppo di lavoro stabile. Questo, da un lato è un male, ma anche un bene. I collaboratori non pagati dopo un po’ se ne vanno, è naturale, ma questo è interessante, perché i ragazzi giovani che lavorano con me poi attraverso questo lavoro professionalizzato, hanno in gran parte trovato lavoro, pagato, altrove. Dunque, non vengono sfruttati, anzi, direi, vengono messi in linea, possono testare se stessi e se non possiamo tenerli, vanno, portandosi in valigia un bagaglio importante di conoscenze e competenze acquisite qui.

Più in generale invece, come è finanziato il progetto?

Questo non è un progetto astrattamente curatoriale, ma una macchina costruita insieme a 100 soggetti, pubblici e privati, che le consentono di stare in piedi. È una macchina teoricamente costosa, invece i soldi non ci sono e allora si attiva una rete di sostegno, rete che è sempre più vasta. Le figure coinvolte, in concreto, non ci danno soldi, ma ci permettono di risparmiare sui costi: le circa 80 aziende che collaborano, mettono a disposizione i materiali, la tecnologia, i macchinari con cui poi si possono realizzare le opere degli artisti.

Appunto, gli artisti, asse portante del progetto. Come lavorano?

Siamo un laboratorio di arti visive, e così il sito diventa una vera fabbrica di produzione artistica, oltre che una residenza. Qui si realizzano molti lavori site specific, gli artisti vengono qui, vivono qui, lavorano qui. Come ad esempio Hubert Kostner, che ha creato, con i materiali dolomitici,   un’opera di grande impatto. E il suo lavoro è sintomatico del sistema attivato. I soldi per il suo enorme progetto non c’erano, Hubert è arrivato con la sua galleria, la Goethe di Bolzano, e ha riflettuto su ciò che c’era intorno a lui. Ha scoperto il Monte Agner e ne ha rifatto a Taibon lo Spigolo nord, a modo suo. Il cantiere, i materiali, le macchine erano una macchina grossa da mettere in pista. Ma qui l’artista ha trovato la logistica necessaria per realizzare il lavoro. Gli artisti, spesso ingessati dal sistema dell’arte, qui sono più liberi, più forti, più folli, perdono la misura che hanno abitualmente, possono sperimentare, pensare, agire, su un diverso parametro. Se un’idea è buona, si trova il modo di realizzarla, aprendo canali e relazioni.

Gianluca, ma tu da dove arrivi, e come arrivi a Dolomiti Contemporanee?

Io sono architetto (laurea allo IUAV di Venezia). Quattro anni fa ho iniziato a lavorare nel settore dell’arte perché la mia formazione era in realtà soprattutto intellettuale ed estetica, e concentrata sui contenuti culturali più che non su una specificità tecnica. Credo che l’architettura sia spesso edilizia, e  che chi costruisce, in realtà spesso non progetti affatto. Dolomiti Contemporanee invece è davvero un progetto: per farlo stare in piedi servono capacità architettoniche e di rete, oltre che un’ossatura di base solida da sviluppare e implementare. Così dovrebbero essere i progetti architettonici: un’idea forte e ferma, e la capacità tecnica di realizzarla. Credo che la mia attività  sia innanzitutto una progettazione e un’architettura culturale, contemporanea, ovvero sperimentale, non basata sull’esperienza e la ripetitività, ma sull’ideatività e sugli scarti creativi.

Partire da zero, con un progetto così grosso, come si fa?

Quando mi sono messo, 2 anni fa, a riflettere sul tema delle Dolomiti, in realtà l’idea è venuta fuori di getto, era già tutto chiaro. E poi c’era la giusta contingenza: la circostanza storica (le Dolomiti divenute patrimonio dell’Umanità) assieme al mio “fastidio” nei confronti dei  “sistemi di chiusura” in generale. Le Dolomiti sono una risorsa poco espressa, non da cannibalizzare ma da utilizzare culturalmente, magari per farci qualche operazione inedita, invece dell’ennesima cartolina. Dunque, il progetto è sorto anche per essere aggressivo culturalmente nei confronti dell’odioso concetto di chiusura e clichè. Non mi interessa in particolare l’archeologia industriale, ma il concetto generale di risorsa depressa, e la difficoltà che c’è a ripensare efficacemente il destino di un luogo con un grande potenziale. Mi disturba quando sento retoricamente parlare di crisi e della conseguente impossibilità di fare. È una ca** di ragionamento, se si vuole si può fare. E se ci riesco anche io che non ho budget…
All’inizio ho trovato dello scetticismo rispetto a quest’idea – apparentemente folle – ma sono andato avanti. Le cose si possono fare perché le idee sono tutto, se sono forti abbastanza, e le si sa spingere.

Si dice che la gente di montagna sia particolarmente chiusa, figurarsi se si parla di arte contemporanea… Con il vostro progetto, così forte e positivamente invadente, come siete stati accolti dalla gente del posto?

Innanzitutto non credo che la gente di montagna sia più chiusa. Gente chiusa e gente aperta si trova dappertutto, da Milano fino a qui. Forse più a Milano. È ovvio però, che se arrivi con un progetto come questo all’interno di piccole comunità, non attecchirà all’istante. Sarebbe più facile farlo lì dove c’è già una cultura specifica, ma come dicevo, di arte contemporanea nelle capitali se ne vede pure troppa. Mentre un’esperienza come quella vissuta a Sass Muss nel 2011, o quest’anno a Taibon, è significativa. La nostra “macchina” non è tetragona: è anzi talmente integrata al territorio che la risposta è principalmente positiva. Abbiamo avuto sostegni concreti da aziende, ditte, fabbriche locali, coinvolto gli studenti e gli artisti, che sono elettroni capaci di stabilire relazioni sia con il paesaggio che con le persone. All’inizio la domanda che si facevano molti era “che diavoleria è mai questa?”, poi la gente inizia a interagire, a informarsi, a partecipare. I circa 100 artisti in residenza hanno conosciuto la gente del posto, sono diventati loro amici. Così si sono innescati rapporti e sono usciti lavori artistici che hanno a che fare proprio con queste relazioni. Ad esempio, uno degli artisti della Fondazione Bevilaqua La Masa ha registrato la “taibonera”, una canzone folcloristica di qui, e la registrazione è diventata un pezzo della mostra. Questa è stata un’operazione chiave nella penetrazione del progetto nella comunità. Il pezzo è passato per le radio locali e così la gente ha capito che l’artista è un tipo umano relazionale che viene, studia, diventa amico e tira fuori riflessioni su ciò che ha vissuto. Non è un alieno venuto da chissà dove, che tira fuori un coniglio dal cilindro.

Dopo Taibon, Casso, luogo devastato dal disastro del Vajont. Qui avete preso una ex scuola chiusa per 50 anni, che torna a vivere grazie a voi…

Casso è uno dei luoghi più chiusi che conosco, è ancora oggi segnato dalla tragedia, molta gente in queste valli è ancora schiacciata dal ricordo, non riesce a liberarsene. Il nostro progetto punta ad attivare, proprio qui, una macchina vitale, che attraverso arte e cultura guardi al presente e al futuro, e non solo al passato. Se noi pretendiamo di “rivitalizzare siti morti”, questo è il luogo morto per eccellenza, con 2000 persone morte davvero, 50 anni fa. Casso è una sorta di lapide; aprire uno spazio tanto chiuso, rifiutandosi di parlare di questa lapide, è un’azione forte, e credo necessaria, per un contesto di questo tipo. Come forte è il fatto che questo spazio sia stato affidato a noi permanentemente. Cercheremo di farne un luogo vivo,  che sia la nemesi di quell’eccesso di memoria del lutto non elaborata che non deve, non può, mangiare o impedire oggi l’identità dei vivi. La morte e la chiusura sono sterili. La cultura, in fondo, è proprio e solo questo, il contrario della morte.

* Gianluca D’Incà Levis è uno degli ospiti della tavola rotonda “Kultura! Idee?” organizzata da CRATere per la Giornata del Contemporaneo (Casa della Cultura, Merano, h 18.00). Insieme a Gialuca dibatteranno sul tema scottante delle idee che stanno dietro, davanti, accanto alla cultura, anche Licia Simoni di “Montagne Racconta”, Hannes Götsch e Isolde Veith di “Kogntiv” e Giorgio Azzoni e Denis Isaia di “Aperto, art on the border fare arte in valle”. Si tratta di esperienze accomunate dalla trasversalità, da una certa eccentricità progettuale, dal dinamismo concettuale e dalle visioni aperte su orizzonti altri, nel magma del sistema culturale vigente.

La foto con Hubert Kostner è di Giacomo Dal Molin, le altre di Giacomo De Donà

Print

Like + Share

Comments

Current day month ye@r *

Discussion+

There is one comment for this article.
  • augusta · 

    è ammirevole quello che fa gianlucad’incalevid ho lettoche dice checasso è una frazione del comune di erto che è un paese chiuso è per caè so fermato a erto? secondo me lo è anche erto molto di più abbandonato.