Culture + Arts > Performing Arts

September 16, 2012

New York Stories #03. Sleep No More

Cristina Vezzaro

Ne ho sentito parlare e non ho potuto resistere, ed è così che mi ritrovo, una sera, in coda (tanto per cambiare, a New York sembra non si faccia altro!) davanti a un palazzo della 27a sotto l’occhio benevolo della Highline. Lo spettacolo di stasera è molto particolare. È una ripresa sui generis del Macbeth, e questo è quanto ne so.

Il mio ingresso è previsto per le 20, e dopo un primo controllo all’esterno (il numero di posti è limitato), finalmente aprono le porte ed entriamo nel buio più totale. Rimaniamo in coda fino a che arriviamo al guardaroba, dove ci tolgono tutto quanto abbiamo tranne la carta di credito (che serve sia per identificarsi all’ingresso, sia per acquistare eventualmente qualcosa da bere). Sempre in coda ci affidiamo a una guida che ci introduce in questo mondo particolare, il mondo di “Sleep No More”, al McKittrick Hotel di New York City.

“Ora vi accompagno nel locale da cui si partirà per l’esplorazione”, ci spiega la maschera, mentre si aprono le porte di un locale semibuio in cui, su un palcoscenico, due gentiluomini inglesi in frac intrattengono il pubblico seduto a tavolini che sorseggia bibite di ogni tipo spiegando cosa sta per succedere.

“A ciascuno di voi è stata data una carta (è vero, me ne accorgo solo ora): non è solo il vostro biglietto di ingresso, è il vostro numero (asso, 1, 2, io sono un 3). Quando sarà chiamato il vostro numero alzatevi e disponetevi in fila, seguite la maschera che vi condurrà all’interno. Questa è un’esperienza individuale, dimenticate il fidanzato l’amico la sorella con cui siete venuti.” Ed effettivamente, con il sottofondo della musica e il brusio delle voci, poco a poco, mano a mano che si chiamano gli assi, gli uno e i due, i tavolini si svuotano, uno dopo l’altro, di singole persone che si alzano e si addentrano nel “teatro”.

Arriva il momento dei 3, e insieme ai miei compagni di avventura mi dispongo in fila, attraverso un tendone scuro e nel buio più totale ci viene data una maschera da indossare e ci vengono dette le seguenti parole:

“Indossate questa maschera e non fatevi riconoscere. Non parlate per nessuna ragione. Se avete bisogno di qualcosa, all’interno dei locali vi saranno delle persone con mascherine nere (le nostre sono grandi maschere bianche) a cui potete rivolgervi. E ricordatevi, la curiosità paga.”

Veniamo quindi spinti in un ascensore che ci porta in alto, fin quando si aprono le porte e ci ritroviamo nella hall di una casa antica.

Il McKittrick Hotel era infatti un hotel in grande stile che doveva essere inaugurato quando, negli anni Venti, ci fu la grande crisi e non venne mai aperto. Ora è utilizzato per questo tipo di performance, ma conserva la struttura di un albergo, con corridoi, stanze, scale e spazi comuni.

Appena usciti non capisco bene cosa fare, ma capisco meglio le parole del ragazzo che all’ingresso mi ha detto “Sono emozionato, per me è la prima volta”. Probabilmente questa è un’esperienza che la gente sceglie di ripetere. Mi metto quindi come tutti a vagare per le stanze. Se curiosità è dovuta, curiosità sia: mi metto a frugare nei cassetti, a guardare dietro le porte (con una certa ansia, a dire il vero), ma dopo un po’ mi stufo e non capisco bene che cosa ci sto a fare lì. Cambio stanza e inizio a seguire un gruppetto di persone che procede più spedito dietro tendoni di velluto che non promettono niente di buono. Ancora nulla.

Giungiamo a delle scale e decidiamo di salirle. Il tutto senza parlare. Mi metto in coda e procedo al piano superiore, ma appena arriviamo alla porta (il tutto nella semioscurità) sentiamo passi spediti che si avvicinano, qualcuno sta dicendo qualcosa, seguito da uno sciame di maschere. Facciamo largo e facciamo passare: non abbiamo ancora capito che quello è lo spettacolo. Poco dopo, quando ci ritroviamo a ripercorrere altre scene e altri ambienti ora nuovamente vuoti, intuiamo che se la prossima volta non ci mettiamo a seguire gli attori (gli unici senza maschere!) ci perdiamo il clou dell’azione.

Ma ecco che entriamo nella prima scena. Un uomo in una stanza sta leggendo la posta con fare preoccupato e quindi alza lo sguardo, come a cercare qualcuno. Con passo rapido attraversa il corridoio ed entra in un’altra stanza. Quindi fa ritorno sempre più accaldato e mentre indugia in corridoio vede arrivare un uomo insanguinato. Scambiano qualche parola brevemente e poi il primo uomo prende una donna accanto a me e la porta dentro una stanza. Aspettiamo un po’ ma non escono più. Vediamo passare qualcun altro e lo seguiamo, ritrovandoci in un salotto in cui una donna incinta si agita su e giù da un divano tormentandosi alla vista di vecchie fotografie. Ed è quando seguiamo lei che ci ritroviamo per la prima volta in un anfiteatro centrale adibito a sala da ballo dove tutti gli attori, almeno una dozzina, sono a un gran ballo. Iniziamo quindi a capire le relazioni che li legano e le dinamiche.

Il ballo si scioglie e di colpo ti ritrovi a dover scegliere qualcuno da seguire prima che la scena rimanga vuota e tu ti perda di nuovo lo “spettacolo”. Un altare sacrificale e gli attori – ballerini ad arrampicarsi sui muri – una donna nuda che si immerge in una vasca da bagno e ne esce ricoperta di sangue, una dopo l’altra si susseguono le scene che ti travolgono. A un certo punto un attore si avvicina, mi accarezza la testa (sempre mascherata) e si avvicina con la bocca al mio collo per poi sparire dietro una porta (con un’altra!).

Insomma, dal disagio iniziale, tra l’ignoto, il buio e lo spaesamento, quando un paio d’ore dopo mi ritrovo a prendere coscienza delle mie azioni sto correndo, trafelata, su per le scale all’inseguimento di uno degli attori nell’attesa di scoprire la scena successiva. E quando lo sto per perdere, uno “spettatore” asiatico, lo si intuisce attraverso le fessure per gli occhi, mi indica in silenzio ma con fare concitato da che parte andare: deve essere uno di quelli che questa esperienza la ripete per non perdersi nemmeno una delle numerose scene della “pièce”. E allora ci lanciamo alla rincorsa, senza troppo badare a convenevoli e precedenze, per non perderci.

È questa la magia degli spettacoli del gruppo inglese Punchdrunk, che trasformano lo spettacolo tradizionale in un’esperienza per i sensi, dove la trama, la scenografia e la coreografia diventano solo una scusa per catapultarti in un mondo in cui, a freddo, non penseresti mai di compiere certe azioni per un fine tutto sommato frivolo e inutile, ma che in quel preciso istante sembra assolutamente prioritario nonché necessario. È interessante scoprire una parte di sé che la razionalità e la normalità della vita quotidiana credono di poter tenere a freno, ma che nel giusto contesto scatena l’istinto animale.

Esausti, torniamo nel locale in cui un’orchestrina suona il jazz, e con la nostra maschera in mano ci riavviamo verso il guardaroba. “Immagino questa non sia la cosa più strana che si possa fare a New York” chiedo al ragazzo al bancone. “Quite up there” mi risponde. E mentre esco dal McKittrick Hotel, qui dove non ci sono turisti e le strade di New York sono piuttosto tranquille, in questo martedì sera, mi sembra di essere su un altro pianeta.

Print

Like + Share

Comments

Current day month ye@r *

Discussion+

There are no comments for this article.