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September 12, 2012

#opensourcecure: la retorica digitale alla prova dell’arte

El_Pinta

I have a brain cancer“, si apre con queste parole, definitive, ma pronunciate con una normalità che per un attimo lascia interdetti, il video con cui Salvatore Iaconesi, ingegnere, artista e cultore del mondo digitale racconta la storia di #opensourcecure. Difficile definire questo un semplice progetto artistico perché fin dalla premessa, ovvero dalla pubblica confessione della malattia, è l’ambito stesso della vita, nel suo aspetto più essenziale e costitutivo – la salute -, a essere chiamato in causa.

La ferita sulla fronte di Salvatore chiede allo spettatore di essere guardata, non tanto per soddisfarne la bulimia di “realtà” (di realtà dell’immagine) che caratterizza ormai da tempo l’orizzonte della nostra esperienza mediatica, quanto piuttosto per essere presa in carico e con questo gesto partecipare a produrre una cura – medica, spirituale o umana – per il problema di salute di Salvatore.

Come poter mettere in atto questo gesto? Come poter prendere parte a questa cura? Come evitare di essere retorici in un frangente del genere?

Partendo dai dati.

È qui che l’iniziativa di Salvatore Iaconesi si fa radicalmente artistica, rigenerando nell’arte quella funzione di critica del contemporaneo che le appartiene nei suoi momenti più produttivi.

Salvatore ha un problema, la sua cartella clinica digitale è codificata in un formato proprietario. Può cioè essere letta soltanto da chi possiede un software in particolare. Agli altri è preclusa. Salvatore decide perciò di violare questa codifica e cracca la sua cartella clinica digitale, compiendo così un atto illegale. Il gesto dell’hacker per eccellenza, la violazione del confine invisibile che recinta la conoscenza, diventa in questo modo un atto che attiene alla sopravvivenza (il delitto del non rubare quando si ha fame, cantava De André)

Questo gesto così radicale pone al dibattito un problema di straordinaria importanza: a chi appartiene la mia salute? A chi appartiene la mia salute quando gli elementi da cui si potrebbe elaborare una cura sono disponibili in una formato che non è disponibile liberamente ad ogni medico?

È in ballo una questione centrale per definire i nostri futuri diritti di cittadini digitali che con sempre maggiore costanza abitiano spazi virtuali. A chi appartengono i nostri dati? A chi appartiene la conoscenza? A chi appartiene il valore che produciamo attraverso il lavorio che mettiamo costantemente in atto nel virtuale?

Sono domande che troppo spesso il dibattito sul digitale tralascia per perdersi nelle derive tecno-utopiste di una retorica che rifiuta di guardare quali spazi di libertà alieniamo più o meno volontariamente e che non riconosce come ogni virtualità porti imbricata dentro di sé una realtà e una materialità costantemente negate.

Col suo gesto di Salvatore (e spero che non se ne abbia a male se fin qui gli ho dato del tu, come lo darei a un amico) pala di questo e nel farlo parla anche della sua vita e del suo problema di salute. Salvatore ci mette a disposizione una parte della conoscenza su di lui: i dati della cartella clinica, le immagini della tac, e ci chiede di prendercene cura. Ci chiede di usarli nei modi in cui sappiamo usarli. Ci chiede di avere il coraggio di guardare in faccia il dolore e di affrontarlo. Ci chiede, infine, di riflettere su che cittadini vogliamo essere e su che diritti vogliamo pretendere per costruire la società in cui stiamo vivendo.

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There are 6 comments for this article.
  • massimiliano · 

    @El_Pinta grazie per aver raccontato la sofferenza con rispetto e soprattutto con intelligenza critica.
    Nel secondo paragrafo citi la riflessione di Marco Dinoi sulle immagini televisive del crollo delle Twin Towers. Nel suo “Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema” (Le Lettere 2008) Dinoi scrive:
    “Tra il ‘sembra vero’, con cui gli avventori del Grand Café accoglievano nel 1895 le prime proiezioni cinematografiche dei fratelli Lumière, e il ‘sembra un film’, con cui lo spettatore televisivo dell’attentato contro le Twin Towers ha reagito a quelle immagini, c’è forse un salto cognitivo che manifesta un aspetto della nostra epoca con cui già da tempo ci troviamo a fare i conti”.

    Mi sembra davvero utile riprendere queste riflessioni laddove si tratta di ragionare sulle le forme della sofferenza a distanza. #opensourcecure mostra tutta la sua forza critica e creativa quando denuncia la necessità di un diritto alla conoscenza che per riaffermarsi e ridefinirsi deve disobbedire alle norme vigenti. Mi sembra un gesto creativo e non distruttivo: laddove la mediazione della sofferenza è abolita dai media che abusano del dettaglio e del primo piano, #opensourcecure denuncia le barriere di un sistema che regolamenta la cura in modo esclusivo, privando il paziente del diritto alla conoscenza. Ecco che anche le immagini del video diventano un strumento per riflettere sullo stato di regolamentazione della salute.

  • Cristina A · 

    Bello e denso il commento di El_Pinta. Mi pare che l’operazione di #opensourcecure muova una critica alla “espropriazione di sé” cui è soggetto un paziente ben più profonda della denuncia all’ambiguo trattamento dei dati medici. La “terza via” che apre fra spettacolarizzazione svilente dell’umano (la riduzione a fenomeno da circo cui è inesorabilmente soggetto chi si azzardi a esporre la propria tragedia personale sulla scena mediatica) e riserbo assoluto nel privato sdogana quel diritto di parlare della morte, di condividere collettivamente quei buchi neri dell’esistenza per i quali il post-capitalismo non ha risposte, che rintana nella rimozione (ci pensa lo specialista, la famosa triade medico-prete-avvocato) o normalizza nel patetismo pseudo-cattolico. è proprio la sua scelta anti-patetica a rivendicare non solo il diritto a continuare a essere padrone di sé, a conoscere e decidere, ma anche il diritto alla condivisione, a un collettivo laico e rispettoso della dignità umana, altrattanto distante dalla parrocchia che dai salotti di Barbara d’Urso o Maria De Filippi.

  • El_Pinta · 

    Ne approfitto per ringraziare dell’attenzione e degli spunti Massimiliano e Cristina che mettono entrambi in luce alcune correnti che si muovono sotto la pelle di questo piccolo testo.
    Quando mi sono imbattuto in questa cosa ho avuto la sensazione che #opensourcecure andasse a intrecciare i fili di molte riflessioni fatte in questi ultimi anni a cavallo tra la rete e la realtà.
    Ma ho anche avuto la sensazione che quelle immagini mi/ci stessero chiamando in causa, ci stessero chiedendo di prenderci in carico una parte di quel dolore coi mezzi e gli strumenti che ci sono proprio. Il mio è la riflessione critica, la capacità di delineare nel testo, a partire dalla sua analisi come costrutto semiotico, linee di fuga che lo connettano con l’ambiente circostante.
    È così che si tengono insieme una riflessione sull’habeas data e sulla cittadinanza digitale e anche una riflessione sull’immagine e sulle forme di medialità in cui siamo immersi.
    Mi sembrava che il video di Salvatore facesse frizione rispetto a quel regime dell’immagine che cerca una realtà che finisce per essere una realtà dell’immagine (dei suoi codici compositivi innanzitutto) e che per questo motivo fosse non solo più autentica, ma radicalmente diversa nei suoi statuti semiotici e, forse, ontologici.
    Questo mi pareva potesse essere un modo per andare oltre al dibattito, sterili, sull’ansia di visibilità e sull’opportunità di mostrare o nascondere il dolore

  • whiplash · 

    Brillante descrizione di un caso tanto tragico quanto straordinario. L’hacker è tale in qualsiasi circostanza e anche nella disgrazia applica il metodo al quale ha improntato la propria esistenza, per fini anche estremamente pratici ma non solo. Riafferma un principio gnoseologico fondamentale e contesta l’idea che persino in un ambito tanto critico come quello della sanità si debba ricorrere a formati proprietari dei dati, dati che sono una rappresentazione del suo stesso stato di salute, ricordiamolo. Non credo neanche, e qui l’unico appunto, che sia un atto illegale, persino il diritto
    liberista riconosce non di rado la liceità del reverse engineering effettuato ai fini di interoperabilità, ma per l’hacker ciò conta molto relativamente, in fondo: più importante è riaffermare che la conoscenza e il dato che la rappresenta debba essere universalmente disponibile, elemento inalienabile del Comune. Chiudo segnalando un typo: c’è un ‘pala’ al posto di un ‘parla’ :-)

    • El_Pinta · 

      Hai ragione a dire che l’uso del concetto di illegalità non è corretto. Forse la violazione di una licenza d’uso sarebbe meglio nominarla come un atto illecito