#opensourcecure: la retorica digitale alla prova dell’arte

#opensourcecure: la retorica digitale alla prova dell’arte

I have a brain cancer“, si apre con queste parole, definitive, ma pronunciate con una normalità che per un attimo lascia interdetti, il video con cui Salvatore Iaconesi, ingegnere, artista e cultore del mondo digitale racconta la storia di #opensourcecure. Difficile definire questo un semplice progetto artistico perché fin dalla premessa, ovvero dalla pubblica confessione della malattia, è l’ambito stesso della vita, nel suo aspetto più essenziale e costitutivo – la salute -, a essere chiamato in causa.

La ferita sulla fronte di Salvatore chiede allo spettatore di essere guardata, non tanto per soddisfarne la bulimia di “realtà” (di realtà dell’immagine) che caratterizza ormai da tempo l’orizzonte della nostra esperienza mediatica, quanto piuttosto per essere presa in carico e con questo gesto partecipare a produrre una cura – medica, spirituale o umana – per il problema di salute di Salvatore.

Come poter mettere in atto questo gesto? Come poter prendere parte a questa cura? Come evitare di essere retorici in un frangente del genere?

Partendo dai dati.

È qui che l’iniziativa di Salvatore Iaconesi si fa radicalmente artistica, rigenerando nell’arte quella funzione di critica del contemporaneo che le appartiene nei suoi momenti più produttivi.

Salvatore ha un problema, la sua cartella clinica digitale è codificata in un formato proprietario. Può cioè essere letta soltanto da chi possiede un software in particolare. Agli altri è preclusa. Salvatore decide perciò di violare questa codifica e cracca la sua cartella clinica digitale, compiendo così un atto illegale. Il gesto dell’hacker per eccellenza, la violazione del confine invisibile che recinta la conoscenza, diventa in questo modo un atto che attiene alla sopravvivenza (il delitto del non rubare quando si ha fame, cantava De André)

Questo gesto così radicale pone al dibattito un problema di straordinaria importanza: a chi appartiene la mia salute? A chi appartiene la mia salute quando gli elementi da cui si potrebbe elaborare una cura sono disponibili in una formato che non è disponibile liberamente ad ogni medico?

È in ballo una questione centrale per definire i nostri futuri diritti di cittadini digitali che con sempre maggiore costanza abitiano spazi virtuali. A chi appartengono i nostri dati? A chi appartiene la conoscenza? A chi appartiene il valore che produciamo attraverso il lavorio che mettiamo costantemente in atto nel virtuale?

Sono domande che troppo spesso il dibattito sul digitale tralascia per perdersi nelle derive tecno-utopiste di una retorica che rifiuta di guardare quali spazi di libertà alieniamo più o meno volontariamente e che non riconosce come ogni virtualità porti imbricata dentro di sé una realtà e una materialità costantemente negate.

Col suo gesto di Salvatore (e spero che non se ne abbia a male se fin qui gli ho dato del tu, come lo darei a un amico) pala di questo e nel farlo parla anche della sua vita e del suo problema di salute. Salvatore ci mette a disposizione una parte della conoscenza su di lui: i dati della cartella clinica, le immagini della tac, e ci chiede di prendercene cura. Ci chiede di usarli nei modi in cui sappiamo usarli. Ci chiede di avere il coraggio di guardare in faccia il dolore e di affrontarlo. Ci chiede, infine, di riflettere su che cittadini vogliamo essere e su che diritti vogliamo pretendere per costruire la società in cui stiamo vivendo.

SHARE
//