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September 4, 2012

Turkish Delight #05. Göreme – Cappadocia – ore12.25

Alessandro Farina

Scrivere su un pullman si rivela cosa alquanto complicata. Gli ammortizzatori scarichi fanno cadere in stallo la mia mano un secondo sì e l’altro pure, spero di riuscire a decifrare i glifi incomprensibili che mi escono dalla penna una volta arrivato sulla terra ferma.

L’autostrada ci mette del suo, cercando in tutti i modi, fra dossi e buche, di farmi strappare il foglio. Mi guardo attorno per non perdere la pazienza. Sono seduto come un piccolo sultano, gambe incrociate e frutta secca al mio fianco. Aria per favore, che quella condizionata proprio non la sopporto. Forse se chiedo gentilmente al tuttofare tira fuori un ventaglio.

Passo il ponte sul Bosforo, Istanbul mi saluta con un tripudio di luci, io per contraccambiare schiaccio il naso sul vetro, appannando tutto. Bello sentirsi di nuovo come alla prima gita fuori casa, fortunatamente non fanno l’appello.

Bello, ma arriva inevitabilmente la noia da bus. Cerco di snocciolare quelle due parole di turco che ho imparato dal mio compagno di viaggio, un ragazzo di Nevşehir che lavora a Istanbul. Va dalla famiglia per l’estate. In Italia è nord-sud, qui pure.

Questo è quello che riusciamo a dirci prima di vederlo sprofondare in un sonno pesante. Fa il camionista. Abituato a guidare, ora se la gode come passeggero. Giustamente.

Le luci sono spente, dormono praticamente tutti, a parte un ragazzino che si ostina a guardare un telefilm dal suo monitor nonostante la debolezza del segnale tv.

Ok. Proviamo a dormire.

Chiunque abbia viaggiato su un pullman a lunga tratta sa che in fondo in fondo deve tirare fuori dal cilindro qualche numero di onesto contorsionismo

Il bello è riuscirci. Appena ti rendi conto di dormire di un sonno che via via si fa sempre più pesante ti senti contento, orgoglioso. Riesco a dormire pure qui.

Poi le luci. Il freno straziato dal piede dell’autista che non ne vuole sapere di farci atterrare senza sobbalzi al punto di arrivo, sembra di stare in aereo.

Siamo arrivati?

Così credo. Apro un occhio. Apro il secondo, il mio vicino non vuol saperne di muoversi, lo imito.

Spio dal finestrino. Buio. Pesto

Ma la gente scende. Perché no? Scendo anche io, andiamo a vedere.

Siamo in una stazione di servizio dispersa in un apparente nulla, appena rischiarato dallo strano mix di luci bianche dell’edificio e quelle giallo pesante dei lampioni.

Esco e il freddo mi assale. Inaspettato e sgradito ospite. Passo dai 30 e passa gradi di Istanbul ai, credo, 15 di..boh. Onestamente non lo so. Ma conta davvero saperlo?

La stazione di servizio è scarna, vuota, e asettica. Un enorme capannone nel nulla.

Lo posso quasi percepire l’immenso spazio che mi si para davanti, mentre con il passare dei minuti la fioca luce di quella che dovrà diventare l’alba, prova timidamente a svelarmi un minimo di orizzonte.

Sento l’odore del mare. Ci ho vissuto per anni e quel profumo salmastro mi è rimasto dentro, nascosto nel fondo dei polmoni. Ma se c’è non lo vedo e nemmeno lo sento. Eppure la sua presenza è forte.  Decido di non occuparmene e mi getto verso il bar in cerca di un çay bollente: tremo. Un po’ per il sonno, un po’ per il freddo inaspettato.

Conosco una coppia di ragazzi di Milano. Fumiamo due sigarette e chiacchieriamo. Sono diretti verso est, direzione Nemrut Dağı, una montagna della Mesopotamia settentrionale resa celebre dai resti archeologici di un tumulo risalente al 60 a.C.

Lì, da secoli,  le enormi teste di quelle che una volta erano statue dedicate alle principali divinità salutano l’arrivo dell’alba e del tramonto. Vorrei andarci anche io, ma ho scelto la Cappadocia.

Di colpo la catarrosa voce del tuttofare ci richiama all’ordine. È’ ora di ripartire.

Il tempo di provare a riaddormentarmi ed ecco che spuntano i primi raggi di sole.

E lo vedo. Il mare.

Calmo, fermo, bianco.

Fermo, bianco? Nel bel mezzo della Turchia?

Considerazioni che mi fanno riaprire gli occhi. Osservo meglio, credo di aver capito ma devo chiedere lumi al mio compagno di sedile.

Non è il mare. E’ un lago. Di sale.

Ecco perché quel profumo. Mi trovo sulle rive del Tuz Gölü, nell’Anatolia centrale. Il secondo lago della Turchia.

Data la scarsa profondità delle sue acque (1 o 2 metri) d’estate rimangono allo scoperto enormi zone del fondale, ricoperte di sale. Un deserto salato, di un bianco accecante.

Non me lo aspettavo, un regalo in più offertomi dal karma che mi sta guidando con semplice complicità sin da quando sono partito. Bene. Ne farò tesoro.

Il sole è praticamente spuntato quando entriamo a Nevşehir, Cappadocia. Ormai ci siamo, dalla città il pullman deve solo proseguire per pochi minuti scendendo attraverso un canyon dalle pareti levigate dall’erosione. Sembrano onde di seta.

I miei occhi ancora addormentati fanno un po’ fatica a cogliere la complessità del paesaggio che mi si para di fronte. Cercavo Marte. Ci sono arrivato. Benvenuto a Göreme.

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