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August 31, 2012

dOCUMENTA (13). L’arte è qui. (e Franz era lì)

Aaron Ceolan

Francesco Bonami paragona la manifestazione artistica di Kassel ad un piatto di nouvelle cuisine . «Un’enorme stoviglia, inutili decorazioni, un brodino teorico di cui non si comprendono gli ingredienti, ma dove al centro, a cercare bene, si trovano bocconi prelibati.» Ebbene anch’io, in un insolitamente caldo weekend di fine luglio feci tappa a Kassel, con un bagaglio carico di entusiasmo e aspettative, alla ricerca di quei bocconi prelibati anticipati dal critico fiorentino. Mi attendeva una città nuova, a me sconosciuta, che visse il suo periodo più drammatico durante la seconda guerra mondiale, quando nel 1943 un bombardamento rase al suolo il 90% del centro cittadino. Kassel ripartì da zero, non restaurando ma ricostruendo in uno stile più contemporaneo. Venne realizzata una città moderna pronta ad ospitare, a partire dal 1955 sotto la sapiente direzione di Arnold Bode, con cadenza quinquennale una delle manifestazioni di arte contemporanea più importanti al mondo.

La 13ma edizione, dal 9 giugno al 13 settembre 2012, è curata dall’italoamericana Carolyn Christov-Bakargiev, il cui scopo è stato quello di realizzare un insieme di concetti, senza un argomento portante preciso, associando sotto gli infiniti tentacoli dell’arte contemporanea tematiche storiche, politiche, scientifiche e filosofiche. dOCUMENTA (13) presenta le realizzazioni di 193 artisti chiamati in causa dalla Christov-Bakargiev, e offerti al pubblico in modo disseminato nelle 31 sedi della città situata nell’Assia settentrionale. Centro pulsante della manifestazione non possono che essere le strutture intorno all’imponente Friedrichsplatz, dove le linee urbane di Kassel vengono ad incontrarsi, creando uno spazio aperto dove sul lato verso il fiume Fulda si apre l’ampio parco di Karlsaue. Dando un’occhiata rapida all’elenco degli artisti, ci si rende subito conto della grande varietà presente alla rassegna. Infatti vi troviamo nomi sconosciuti vicino a interpreti popolari del calibro di Kentridge, Penone, Morandi, Dalì o Man Ray.

Addentrandosi nel Fridericianum, quello che dovrebbe essere il cuore pulsante della manifestazione ma che in realtà delude le aspettative, la prima opera con la quale ci si confronta è I Need Some Meaning I Can Memorise (The Invisible Pull), di Ryan Gander. Questa realizzazione, o preferisco sinceramente chiamarla idea, perché di opera vera e propria non si tratta, è una leggera brezza che invade l’intero pianterreno del museo. L’intento è quello di suscitare nel visitatore un attimo di attenzione per quell’aria creata da un condizionatore. La stanza vuota dalle grandi pareti bianche non illuda però il curioso spettatore, destinato ad imbattersi in una totalità di opere d’arte dalla presenza talvolta anche troppo ingombrante. L’aria considerata opera d’arte varca un confine importante, per la quale non è più necessario il senso visivo, si basa infatti sulla percezione di essa sulla propria pelle. Viene dunque richiesta la compartecipazione attraverso questa percezione, del pubblico. Passando a un’altra sede di documenta, il Hauptbahnhof, ovvero la vecchia stazione centrale di Kassel, ritroviamo la stessa voglia di rendere partecipe colui che visita. Il duo canadese Janet Cardiff e George Bures Miller offre la possibilità di vivere la loro realizzazione, entrando a far parte del progetto d’artista. Con Alter Bahnhof Video Walk lo spettatore, munito di iPhone e seguendo il video realizzato dai due canadesi sul posto, viene proiettato nel passato, e cioè nel momento della ripresa del video, dovendosi però anche continuamente confrontare con il presente che lo circonda. In questo modo si crea un interessante intreccio spazio-temporale, nel quale si fa fatica a distinguere il passato dal presente. Si tratta di un’esperienza «cinema-corporea», che inoltre sollecita la nostra sensibilità nel momento in cui veniamo accompagnati in maniera virtuale verso il binario 13 della stazione, ora non più in funzione, ma che sotto il regime nazista era diretto verso il campo di concentramento di Buchenwald. Esperienza di video-arte anche quella di Nanni Balestrini con il suo Tristanoil, un film della durata complessiva di 2.400 ore, che si protrae per 100 giorni, l’intera durata di dOCUMENTA (13). Ne risulta un vero e proprio collage sperimentale di immagini sovrapposte secondo una sequenza algoritmica assolutamente personale, a formare un monumento frammentario del vissuto. Si percepisce la drammaticità dell’intento dell’artista, così come la si percepisce nell’ammasso di macerie, recuperate da una discarica e violentemente accatastate lungo i binari della stazione, dell’altra italiana Lara Favaretto.

Il Nordflügel di quella che in realtà era la principale stazione solo fino al 1991, e che ora viene usata soltanto come capolinea di treni pendolari, assomiglia in tutto e per tutto a un deposito abbandonato. Entrandovi e intravedendo tra l’oscurità la grande montagna di terra facente parte dell’opera di Michael Portnoy, si ha l’ambigua sensazione di essere giunti sul set di un film di Stanley Kubrick. Vi è un particolare odore nell’aria e mi rendo conto che dalla montagna, che in realtà ha tutte le sembianze di un piccolo vulcano, esce del fumo. L’americano Portnoy, il quale ha una facilmente intuibile formazione teatrale alle spalle, presenta una performance, assumendo il ruolo di regista comportamentale. Noi, il sottoscritto ha la fortuna di poter partecipare a tale azione artistica, siamo una specie di marionette, ai comandi del coordinatore americano. Dobbiamo risultare efficienti, brillanti e pronti ad adattarci agli altri attori. Portnoy agisce come un ballerino isterico, guidandoci all’interno del vulcano, e richiedendo una partecipazione adeguata. L’azione si sviluppa attorno a degli elementi fittizi, gli Gnosis, che dovrebbero darci la forza di interpretare il nostro ruolo.

L’arte curata e presentata da Carolyn Christov-Bakargiev vuole certamente impegnare. Nel senso che lo spettatore non può permettersi di essere un osservatore passivo, ma deve secondo la volontà dei vari artisti riuscire a penetrare il loro pensiero, facendone parte in maniera anche fisica e non solo mentale. In questo modo si diventa parte del progetto artistico di Kassel, sviluppando un approccio all’arte contemporanea interessante e democratico. Un esempio singolare ne è il progetto ambizioso di Theaster Gates, che comprende più persone e si lega alla sua città natale Chicago. L’artista in riguardo, tuttologo in realtà, ha a cuore l’incontro tra persone, in modo da sviluppare uno scambio culturale reciproco. A Kassel con 12 Ballads for the Huguenot House, Gates arreda con dei suoi amici provenienti da Chicago, esclusivamente con materiali di scarto, la casa degli Ugonotti. Si tratta di un vecchio edificio fatiscente in disuso dagli anni Settanta, dove Gates e gli altri trascorrono il periodo di documenta. Vi abitano, creano, costruiscono e fanno musica, in un’atmosfera bohemien assolutamente invitante.

Considerando anche quello che Kassel ha da offrire sotto il punto di vista artistico oltre a documenta, risulta molto interessante l’incontro inevitabile di opere d’arte di fama internazionale, facenti parte di collezioni permanenti di musei, come avviene ad esempio nella Neue Galerie con The Pack di Beuys, o opere di Richter, Nitsch e Hamilton, le quali si accostano alle creazioni della manifestazione quinquennale. Ammiriamo qui le opere di Geoffrey Farmer, che presenta una scia lunga decine di metri, caratterizzata da centinaia di sagome di figure ritagliate diligentemente in cinquanta anni, dal lontano 1935 al 1985, dalla rivista statunitense Life. Oppure ci colpiscono le sculture espressive di Maria Martins, alla ricerca continua di una loro traumatica esistenza. Forti e contemporaneamente molto penetranti sono invece le fotografie di Zanele Muholi, che racconta la comunità nera di gay, lesbiche, transessuali e transgender, in una realtà, quella africana, piena di razzismo e crimini soprattutto nel Sudafrica post-apartheid. Nel tentativo di scrutare ulteriori bocconi prelibati di questa rassegna annotiamo, soprattutto nella Documenta Halle, un gradito riaccostamento alla pittura e al disegno. Colpiscono per la loro vitalità e la voglia di aggredire l’osservatore, le opere del tedesco Gustav Metzger, e per la loro complessità geometrica, quelle di Julie Mehretu. Nello stesso padiglione si trova l’installazione gigantesca di Thomas Bayrle, il quale abbina la tecnologia meccanica all’arte e il cui lavoro meticoloso non può certo passare inosservato.

dOCUMENTA (13) offre un nuovo volto dell’arte contemporanea. Un aspetto che si apre verso il pubblico, offrendo idee ed interpretazioni. È così ad esempio nell’Orangerie, dove la scienza aiuta l’arte a risolvere quesiti riguardanti l’esperienza spazio-temporale. Jeronimo Voss fa uso di proiettori o cosiddette lampade magiche, o ancora l’albanese Anri Sala punta un enorme cannocchiale verso un orologio da lui creato e posizionato in lontananza nel parco di Karlsaue. In definitiva si tratta di un grande mercato dell’arte che comprende le più svariate discipline, una rassegna che riflette l’incontro della condizione del mondo con quella del fare artistico. Una specie di Wunderkammer che da un lato, com’è giusto che sia, presenta troppi oggetti ma che riesce comunque a metterti a tuo agio. Carolyn Christov-Bakargiev ci fa capire che siamo circondati da arte in ogni dove, basta aprire gli occhi e saper vedere, non basta guardare e accontentarsi. È un’arte che va rispettata, ma che finalmente rispetta coloro che la ammirano, mirando a uno scambio di opinioni fra autore e fruitore.

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