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August 3, 2012

Vi sto scrivendo da Singapore: bye bye Singapore ovvero Changi Village and Pulau Ubin

Cristina Vezzaro

Il modo migliore per terminare la visita a Singapore è tornare alle origini.

Perché se Singapore è oggi una città di 3 milioni e mezzo di abitanti locali, a cui si aggiungono expats e migranti per un totale di 5 milioni di abitanti; se vanta un governo eletto “democraticamente” – è un sistema monopartitico! -; se vive di finanza e di turismo; se attira capitali ed expats per una tassazione al 17 (17!)%; se le case del governo iniziano ad avere l’aspetto di condomini di lusso; se secondo le statistiche il salario medio si aggira intorno ai 35–40 mila SD (pari a 25 mila euro circa); se il melting pot culturale fa di Singapore una città estremamente accogliente e rispettosa di tutto ciò che è diverso; se tutto questo è vero, è vero anche che Singapore è indipendente solo da poco più di quarant’anni e che in questi anni ha saputo inventarsi quasi da zero, dal porto commerciale del passato per diventare una capitale che nel sud est asiatico è in concorrenza con Hong Kong e Shanghai.

Ma fino a non molto fa, della giungla di grattacieli, dell’ordine e della pulizia, dello slogan “Quanto conosce bene l’inglese tuo figlio? Da questo dipende il suo futuro!” non c’era granché.

È per questo che, come ultimo giorno, scegliamo di fare un giro a Changi e Pulau Ubin, quello che viene definito l’ultimo kampung (paese) dell’isola.

Con una bumboat che parte da Changi non a orari determinati, ma solo quando ha raggiunto il numero minimo (e massimo) di 12 passeggeri, percorriamo il mare che separa l’isola di Singapore da un’isoletta che è parco naturale, dove prendiamo delle biciclette e ci facciamo un giro. Protagonista assoluta è la vegetazione. Poche baracche e casette di legno o lamiera, templi un po’ improvvisati, elettricità prodotta dai generatori, povertà assoluta e una generale trasandatezza che colpisce molto nel confronto con la città. Un senso del tempo totalmente in contrasto con la frenesia della city. Cani randagi magrissimi in cerca di cibo. Le zanzare e gli insetti che omini alla ghostbusters fanno sparire in città in nuvole bianche di insetticidi. Sembra impossibile che dall’indipendenza nel 1965 di quel mondo non sia rimasto praticamente più nulla se non un’isoletta protetta. Eppure è proprio così.

“Dalla vicina Malesia Singapore si distingue per moltissimi versi, soprattutto,” dice Pai, un singaporiano vero con un nonno arrivato dalla Cina, “per il fatto che la nostra polizia non è corrotta. E non sembra, ma vuol dire tantissimo. E poi la nostra capacità di convivere tra razze e religioni diverse è una gran bella cosa. Peccato solo che sia stato imposto l’inglese come lingua ufficiale anche nelle scuole; noi stessi a casa parliamo un misto di cinese e inglese. Nel tempo ci sarà un’uniformazione generalizzata.”

E degli immigrati lavoratori cosa mi dice? Il loro ingresso nel paese, così come già mi avevano raccontato negli Emirati Arabi, è mediato da agenzie che nel paese fanno una specie di selezione e quindi consentono loro di entrare e iniziare a lavorare. Salvo trattenere per un anno il loro stipendio per intero come commissione di mediazione. Anche qui il governo sembra voler intervenire. E c’è da sperarlo, perché i pick up e camioncini con ammassati sul retro i lavoratori che rientrano in abitazioni che possiamo immaginare calde e poco pulite, comunitarie e maschili, parlano dell’eterno contrasto tra ricchezza e povertà, un contrasto che a Singapore stride ancor più che altrove.

Salutiamo Singapore con qualche piatto mangiato in un hawker center di Changi Village, dumpling di gamberetti e gamberi vietnamiti alla piastra, fried sweet potato, il tutto molto gustoso e a basso costo, mentre i gatti della zona si raccolgono in cerca di resti.

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