Culture + Arts > Performing Arts

July 31, 2012

This is Drodesera We Folk #05: in un giorno qualunque del festival

Lucia Munaro

La logistica
Ho preso una stanza per una notte in un albergo (solo due stelle, economico e pulito) in paese, proprio nella piazza centrale da dove parte il bus navetta del festival. L’intenzione era quindi quella, di arrivare a Dro, lasciare la macchina al parcheggio e col bus (l’unico mezzo permesso, altrimenti c’è una bella ciclabile e a piedi è una passeggiata di mezz’ora) raggiungere la centrale di Fies, dove si svolge il festival, vedere gli spettacoli in programma ogni sera non stop, riprendere il bus per raggiungere l’albergo e dormire qualche ora. E poi ripartire l’indomani presto per tornare a Bolzano-Bozen in prima mattinata, dove impegni vari mi aspettavano (se non c’è troppo traffico ci vuole poco più di un’ora di macchina). Il programma ha funzionato quasi alla perfezione, ho trovato anche un’amica che ha diviso viaggio e stanza con me. Unico intoppo: arrivate circa alle 18.30 a Dro, sbrigate le formalità con l’albergo e preso il primo shuttlebus disponibile, abbiamo raggiunto la centrale solo poco dopo le 19. Lo spettacolo era cominciato forse da una decina di minuti ma l’ingresso non era più permesso, così su quattro spettacoli in programma nella serata, per noi uno è saltato. Pazienza. Al punto ristoro strategicamente aperto nel parco e che offre anche sfiziose cose da mangiare, ci siamo consolate, con una birra doppio malto io, lei con un Traminer, e così ci siamo guardate un po’ intorno per capire dove eravamo. Lei, D. il festival lo conosceva già, ma era da un paio d’anni che mancava, per me era proprio la prima volta. Per andarci ho rinunciato a uno degli appuntamenti di Bolzano Danza, che purtroppo ogni anno si tiene anche a fine luglio, più o meno in contemporanea con Drodesera.
Ne è valsa la pena comunque.

Il pubblico
Nonostante ci siamo perse Eco-applicazione, il lavoro preparatorio per Tremore di Mesmer Artistic Association e Piero Bobina, in programmazione alle 19, la serata è stata più che interessante, a partire dalla performance coreografica del gruppo MK Il giro del mondo in 60 giorni. Questa volta prima delle 21 eravamo già in fila davanti all’entrata della sala Turbina 1. Abbiamo anche avuto il tempo di osservare il pubblico intorno a noi e l’impressione era che fosse diverso da quello che s’incontra in molti altri festival e rassegne, a Bolzano o altrove. Per niente spocchioso, insomma. Rassicurante notare che la stragrande maggioranza era forse data dai trentenni o giù di lì. Mica che io stia male nella mia pelle di quasi sessantenne, ma la cultura ha bisogno anche di giovani, attori e fruitori. Come il lavoro, la politica, l’arte e l’economia, del resto; la cosa però non è scontata, come invece dovrebbe.

1° spettacolo
Veniamo al lavoro di MK, spaesante al primo momento. Il riferimento al romanzo di Verne, al viaggio nell’esotico si fa strada nel corso della rappresentazione, di primo impatto sembra che nei gesti dei danzatori, significante e significato si muovano su linee divergenti, quasi a liberare la danza/il teatro umano di qualsiasi peso informativo e interpretativo. Quasi che si tratti di danza o teatro per un secolo a venire, forse, per un’umanità fatta di automi. Poi via via, riferimenti significativi diventano leggibili e l’impressione è di un movimento al confine sì del nostro universo culturale, ma da questa parte ancora della virtuale linea divisoria. Scenograficamente la sabbia si colora di azzurro, l’idea che sia per rappresentare i mari attraversati nel viaggio viene dopo; dapprima è solo uno dei tanti elementi spiazzanti, come delle palline, forse da golf, tante, piccole e bianche sparse per terra sul palcoscenico a rendere pericolosi i movimenti degli interpreti impegnati nelle varie coreografie o come l’odore intenso di zolfo nell’aria, che viene da associare a un viaggio infernale forse, mentre invece il viaggio è solo nella danza contemporanea, in una delle sue forme possibili. La logica del festival di Drodesera, con la sua programmazione non stop, vuole che appena finito uno spettacolo, tu ti metta in fila già per il prossimo, nella sala a fianco, nella stessa ala oppure in un’altra della centrale. Così abbiamo fatto, appena il tempo di applaudire la compagnia MK e poi via tutti in processione a posizionarsi per la prossima performance. Prima di lasciare la sala Turbina 1 ancora una parola sullo spettacolo di MK, la coreografia non cerca in alcun modo un coinvolgimento emotivo, si potrebbe chiamare piuttosto una “danza concettuale“.

2° spettacolo
In coda anche questa volta, per salire prima le scale, ed entrare poi in un nuovo spazio, la sala delle Mezzelune ricavata da un recente recupero architettonico di parti della centrale.
In questo caso il progetto presentato puntualmente alle 22 è The end, un lavoro sperimentale degli austriaci Andrea Maurer & Thomas Brandstätter/Studio 5. Gli attori del video (e autori del progetto) che sarà proiettato in diretta, sono lì, belle statuine sui blocchi di partenza si direbbe, attori in attesa di un regista. Il pubblico, per andarsi a sedere, passa davanti al luogo delle riprese che un attimo dopo vedremo proiettate sullo schermo poco più in là, nella sala accanto e il passaggio è poi la chiave di lettura per il video. Il filmato in diretta rappresenta una città fatta di simboli, fatta delle interazioni dei tre interpreti tra loro e con vari oggetti, più che altro sagome geometriche, triangoli e via dicendo, ma anche composizioni di caratteri a formare parole, che mano a mano diventano tasselli per costruire una città virtuale, nel senso di un video-mondo dove gli elementi umani diventano parte di un’animazione.
Assolutamente da vedere, per i confini che la performance mette continuamente in discussione, sia sul lato semiotico che tecnico e per il fattore artistico. Una sorta di jazz applicato al video.

3° spettacolo
Per l’ultimo spettacolo The host di Andros Zins-Browne in programmazione alle 23.15 ci spostiamo alla sala Comando, da cui si accede dal cortile sul retro della centrale. La prima impressione è quindi sugli interventi architettonici, il recupero degli spazi sembra essere realizzato con il minimo dispendio possibile, mantenendo il carattere dell’architettura originale pur guadagnando in funzionalità. Una scala esterna protetta da una lamiera di ferro ossidato permette di accedere alla sala con la caratterizzante serie di grandi finestre su due lati, il pubblico viene suddiviso tutt’intorno al quadrangolo della scena, su scalinate provvisorie. Ancora privo di presenze umane, il rettangolo nero del palco si anima, prima impercettibilmente, poi in modo quasi violento la superficie si alza ripetutamente (grazie all’aria pompata in cuscini gonfiabili di diversa grandezza) a formare avvallamenti e colline, o almeno l’intenzione di rappresentare il respiro della terra vi è facilmente leggibile. A contrastare la terra, la natura, mossa altrimenti da moti e ritmi naturali, intervengono poi gli attori nei panni di tre cowboy che provano ad addomesticarla, a conquistarla. Tra la cartolina e la critica lo spettacolo si sviluppa usando all’esasperazione elementi macho e giocando sulla loro ambiguità. La danza “folk” quasi acrobatica eseguita dai tre, in semi equilibrio sul tappeto nero instabile di un territorio che non si lascia domare, lascia aperto l’esito del rapporto tra uomo e natura, a prevalere sono comunque gli indizi critici nei confronti del presunto dominio umano sulla natura.

Alcune impressioni finali
Al di là del contenuto o della realizzazione tecnica dei singoli spettacoli visti, delle singole messe in scena intorno al tema We folk, scelto per l’edizione di quest’anno del festival, l’impressione determinante è quella di muoversi nell’avanguardia, di essere su una piattaforma privilegiata alla scoperta delle nuove tendenze del teatro e della danza a livello europeo: L’attualità della sperimentazione versus lo stantio di rassegne teatrali tradizionali, dove il classico si traduce spesso in noia.
Seconda impressione quella sulla macchina organizzativa, affabile ed efficiente, del festival, quasi prussiana la disciplina e il rigore nel condurre una scaletta impressionante di eventi, serata per serata.
Terza, l’ambientazione incantevole (nel senso che produce incanto) della centrale, sia per gli spazi interni che per il parco all’esterno. Se poi il tempo gioca a favore, soprattutto i momenti di discussione e relax ai tavoli sistemati in ordine sparso intorno al prato e a una fontana zampillante, immersi in una vegetazione da fiaba grazie anche al gioco delle luci, restano piacevoli memorie. A proposito di luci, riuscita anche l’installazione luminosa che nei giorni del festival trasforma la facciata della centrale neorinascimentale in un’attraente scacchiera pop a diversi colori.

Print

Like + Share

Comments

Current day month ye@r *

Discussion+

There are no comments for this article.