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May 19, 2012

La mia Africa #05: incontri

Cornelia Dell'Eva

Marcel ha poco più di settant’anni e vive qui da una trentina. La sua casa è di fronte alla chiesa. E’ venuto dalla Polonia e si è trapiantato qui, sotto il sole zambiano, pieno di entusiasmo e di fervore per quello che veniva a fare: il missionario. Parla correntemente la lingua del posto, mischiata allegramente all’inglese, ma le origini polacche sono evidenti: la pelle bianca è solitamente bruciacchiata e non può rinunciare alla cipolla a colazione. Viste la chiesa e la lista degli incontri tra i vari gruppi, verrebbe da pensare che l’organizzazione di queste attività sia la sua occupazione principale. In realtà la maggior parte del suo tempo lo trascorre in viaggio. La comunità che gli è stata affidata è enorme e per andare da un posto all’altro ci vuole talvolta un giorno di viaggio. Ma non è solo questo: Marcel è anche l’unico che ha la macchina in tutta Chingombe: è lui che trasporta avanti e indietro cose e persone. Proprio in questi giorni ci sono gli studenti da portare in città perché, dopo una pausa di un mese, la scuola ricomincia. Per lo stesso motivo ci sono gli insegnanti, in città, che aspettano che lui li porti a Chingombe. E poi in un posto come questo, dove non ci sono negozi, ogni cosa deve essere importata: Marcel trasporta ogni genere di alimento o articolo che non può essere prodotto in loco, dallo zucchero al sapone, dalla stoffa ai chiodi. Svolge un servizio prezioso, ma mi stupisco del fatto che non abbia trovato il modo di rendere questa gente autosufficiente. Cosa succereda’ quando lui non ci sara’ piu’? Mi raccontano che l’altro prete che lo ha sostituito nell’anno in cui era malato non era disponibile come lui. Almeno al trasporto degli insegnanti fino qui dovrebbe pensarci il governo dello Zambia, visto che la scuola e’ pubblica e sono dipendenti statali…. quando lo dico, Marcel scoppia in una gran risata.

“Muli shanny” è il saluto da rivolgere a chi si incontra. Si dice unendo le mani come in un applauso, e di solito seguono grandi sorrisi – quando lo dico io anche risate o occhi sbarrati nella sorpresa. E’ successo quando sono uscita a fare una passeggiata ed ho incontrato un gruppo di donne. Tornavano in massa da non so quale ritrovo; dai grandi cesti che portavano sulla testa ho pensato che fossero andate a fare il bucato, ma non credo di averci azzeccato: da quella parte non c’è il fiume. Quando ho salutato hanno riso di gusto e le più anziane si sono avvicinate a darmi la mano e il benvenuto. “Finalmente!”  ho pensato. Perché fino a quel momento avevo incontrato sguardi sfuggenti, quasi timidi. Gli occhi bassi mi sbirciavano appena e chi aveva il coraggio di rivolgermi la parola lo faceva con un inchino. Allora ho cominciato ad inchinarmi anch’io: attimi di disorientamento.

E’ andata meglio in un’altra occasione. E’ usanza non rivolgersi mai ad una persona seduta stando in piedi. Così quando la cuoca è venuta a parlarmi mentre stavo in poltrona, prima di tutto si è  accucciata, con un gesto che aveva ancora una volta il sapore dell’inchino. Trovandomi nella situazione opposta, mi sono accucciata io. Questa volta niente smarrimento: si vede che questa regola vale per tutti.

Non è per nulla scontato. Le differenze sono evidenti, e le più importanti non hanno di per sé a che fare con il colore della pelle. Banalmente, il bianco qui è l’unico datore di lavoro possibile. C’è chi è elettricista e chi idraulico, ma le uniche case che hanno luce e acqua corrente sono quelle in cui stiamo noi ed il piccolo studentato costruito dalla parrocchia. Ci sono anche i falegnami: con alcune semplici macchine fatte venire dall’Europa, dove ormai nessuno le usa più a questo livello artigianale, la gente di qui trasforma gli alberi in banchi di scuola. Chi li paga, quei banchi? Qualche progetto di cooperazione. Anche Marcel dà lavoro a chi può: due cuoche che si occupano anche della casa, un autista e meccanico che a volte lo accompagna nei suoi viaggi, una specie di guardiano di notte che non ho ben capito su cosa vegli. In questi giorni Luciano sta facendo sistemare una strada qui intorno, in modo da poterci passare con la macchina – un problema tutto suo, dato che qui di macchine non se ne vedono. Sta anche organizzando la casa: costruire la cucina e i binari per le tende è compito di Evans e Brian. E poi c’è da pulire il canale della turbina, da cominciare gli scavi per un nuovo edificio, da far sistemare la macchina che, sarà anche un fuoristrada, ma risente degli spostamenti su queste piste. Insomma, c’è un sacco di lavoro. Ma com’è la situazione nei 9 mesi l’anno in cui non c’è qui nessun altro se non la gente che ci abita stabilmente? Forse l’economia gira lo stesso, in qualche maniera, ma è fatta piuttosto di baratti, non di soldi. E comunque ogni nucleo famigliare, organizzato in un villaggetto di tre o quattro case, tende ad essere autosufficiente: ognuno con le sue galline, il suo orto, i più benestanti con un pannello solare che alimenta radio e luce. Fatto sta che per comperare lo zucchero ci vogliono i soldi. O per comperarsi una penna, o per andare a studiare. L’autarchia è cosa di altri tempi.

La mia pelle bianca attira l’attenzione. Per i ragazzini sono un personaggio curioso ed è impossibile passeggiare nei dintorni o arrivare ad una festa di matrimonio, come mi è capitato l’altro giorno, senza sentirmi tutti gli occhi addosso. Sono come il fenomeno del momento e suscito le reazioni più diverse, dagli atteggiamenti che sfiorano la reverenza, di cui dicevo prima, alla curiosità, fino a qualcosa che definirei fastidio. Qui sono io l’immigrata.

In questa comunità tutta nera sono nati due bambini bianchi. Sono albini. Uno è poco più che un lattante, l’altro va già a scuola. Impossibile non notarli nel gruppo dei coetanei, spiccano come ciuffi di panna su una Sacher. “Qui sono tollerati – mi fanno sapere – ma in altre zone dell’Africa vengono emarginati o addirittura uccisi”. Come a dimostrare ancora una volta quanto ogni cosa è relativa.

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