La mia Africa #04. Il mondo e i suoi contrari

Chingombe è senz’altro il posto più isolato che io abbia mai visto. Il paragone con alcuni paesini delle nostre montagne non regge: innanzitutto perché qui non c’è un paese ma semplicemente un vasto territorio in cui vivono, sparse, alcune decine di famiglie. E poi perché non ho mai sentito di una paese lontano 10 ore dal primo centro abitato. Qui non ci sono bar, negozi, figuriamoci uffici; verrebbe da dire che non c’è nulla. Eppure sotto molti aspetti è il Paese della cuccagna: la terra è fertile, basta un nulla per coltivare ogni genere di pianta. Ma non c’è neanche tanto bisogno di coltivare: i banani crescono spontanei, idem i manghi e altri frutti. Hai fame? Allunghi una mano ed afferri la merenda direttamente dall’albero. Tutto intorno è verde. Il silenzio regna sovrano, scalfito ogni tanto dai tamburi che, soprattutto la sera, risuonano da angoli lontani. Se scrivessi queste cose su un depliant turistico sono certa che qualcuno potrebbe entusiasmarsi – cibo sano e musica etnica immersi nel cuore dell’Africa: una vacanza all inclusive in un paradiso verde. Le giornate a Chingombe scorrono lente. La gente si alza presto, svegliata dalla luce del sole, mangia quel che c’è, sbriga i mestieri di casa. Un’occhiata all’orto, un’occhiata alle galline, qualche attrezzo da aggiustare. La giornata è lunga, c’è tutto il tempo per fare quello che si deve e quello che si vuole. Penso alla frenesia in cui sono solitamente immersa e mi sembra una situazione lontana. Molti giovani di Chingombe vogliono andare via e sono alla ricerca di un modo per farlo. Magari uno sponsor che gli finanzi gli studi. Obiettivo? Vivere in una città, passare la giornata seduti in un ufficio e avere possibilmente delle giornate frenetiche. Esattamente quello da cui fuggiamo noi durante le vacanze. La Guest house in cui mi sistemano sta in cima ad una collina, a pochi minuti dal centro della missione, dove mangerò in compagnia di Luciano e un prete polacco. La vista è meravigliosa: la veranda è affacciata sulla pianura; in fondo, lontane, le montagne segnano l’orizzonte. E’ stata di Luciano l’idea di costruire quassù una casa a disposizione degli ospiti di passaggio. Solo a uno di fuori poteva venire un’idea tanto balzana: costruire in collina significa dover camminare in salita. Una fatica che in un posto del genere, dove nelle ore centrali della giornata ogni movimento è una sofferenza, è bene risparmiarsi. A una decina di minuti di cammino, si potrebbe dire “all’entrata in Chingombe”, ci sono due edifici bassi e disabitati. Su uno è addirittura montata una parabola, chiaramente i disuso. Sono i segni di una cooperazione fallita: li ha costruiti un’organizzazione che aveva un progetto in questa zona. “Sono venuti qui e per prima cosa hanno costruito questi edifici. Poi hanno fotografato i bambini di Chingombe spiegando ai genitori che con le adozioni a distanza potevano ricevere un aiuto per tirarli su, magari per farli studiare. Dopo un paio di anni sono spariti e non se n’è più saputo nulla”, mi racconta Clement sorridendo, come se trovasse ovvia questa fine. Lui è riuscito a finire le superiori. Ora cerca uno sponsor per andare all’Università, ma sa che è un’impresa quasi impossibile. Sono le sei e il sole scompare veloce dietro le montagne. Tra una mezzora si cena, torno alla missione. Eccomi qui: un’italiana in Africa che prepara per un prete polacco il guacamole che ha imparato a fare in Guatemala. Anche questa è globalizzazione….