La mia Africa #03. Da Kabwa a Chingombe. Ovvero: 230 chilometri in 9 ore

La mia Africa #03. Da Kabwa a Chingombe. Ovvero: 230 chilometri in 9 ore

La strada asfaltata termina quasi subito, tempo 10 minuti di viaggio e comincia lo sterrato. Non è male: qualche buca qua e là, bisogna farci attenzione, ma la strada è larga e non è difficile scansarsi. Incontriamo parecchia gente in bicicletta che trasporta carichi improbabili. Si va dal carico umano (una donna con bambino sul portapacchi: siamo ben lontani dalle esagerazioni indiane) alle merci, fino al carico animale: ho visto passare capre ancora vive e maiali morti adagiati dietro la sella e ben legati.

Man mano che si procede, la strada si restringe e l’erba ai lati della carreggiata si allunga. La natura africana è indomabile, viva di una vitalità trasbordante. In alcuni tratti l’erba è alta almeno due metri, non per niente la chiamano elefant gras. Ogni tanto bisogna suonare il clacson per invitare i ciclisti a togliersi di mezzo. In due secondi il ragazzino di turno gira il manubrio e sparisce tra l’erba elefantiaca. E non cade, nonostante vada a finire su un terreno ben più dissestato della strada.

Altri si spostano a piedi. Sulle spalle un bambino, un pacco o un’intera valigia (i trolley sono un’invenzione inutile in questa situazione), sul viso la fatica dei chilometri fatti e di quelli ancora da fare.

Improvvisamente, dietro una curva, il fiume. E sul fiume una chiatta che sembra lì per aspettarci. La macchina procede lenta e prende posto su questa zattera a motore. “Fino a qualche anno fa la tiravano a braccia tra una sponda e l’altra”, spiega Luciano. Siamo i soli ad attraversare il fiume in questa direzione, almeno in questo momento. Dall’altra parte aspetta invece un gruppo silenzioso di gente in viaggio. Ci guardano incuriositi, non so se per la macchina o per la pelle pallida. O forse si chiedono semplicemente cosa ci stiamo a fare in un posto del genere. In ogni caso tutti procedono nella direzione opposta: le città, i mercati, i luoghi degli incontri sono di là.

Da qui in poi bianchi non se ne vedono più. Da qui in poi la strada diventa brutta davvero. Più che una strada è un sentiero per automobili. L’erba si abbassa al nostro arrivo, fruscia sotto la macchina, accarezza le fiancate, ci inghiotte. Poi affrontiamo le montagne, al posto dell’erba solo sassi e le radici degli alberi. La macchina si arrampica ovunque, sembra che le ruote abbiano artigli. Spesso ci troviamo sbilanciati: vedo Luciano al mio fianco molto più in alto e poi molto più in basso di me. Possibile che non ci capottiamo?

La terra è scavata dall’acqua: nel periodo delle piogge i sentieri diventano fiumi.

Ogni tanto il sentiero si biforca e offre, per un tratto, un percorso alternativo. Non c’è dubbio su quale strada scegliere: una delle due è scorticata e ora mostra le ossa, rocce rosse che sono il vero sostegno di questo sentiero, lo scheletro della montagna. Le piste usate per decenni diventano impraticabili, graffiate continuamente dalle ruote; e allora qualcuno si inventa una pista nuova.

Arranchiamo lenti in salita, procediamo prudenti in discesa fino all’inevitabile scoppio di una gomma. Nessun dramma, nessun problema: era previsto. Anzi: strano che sia successo solo a questo punto!

Scendiamo dalla macchina tutti cinque. Anzi, tutti sei: la bimba di un anno circa che viaggia con noi non si è sentita per tutto il viaggio. Sono già sette ore che siamo in macchina e lei se ne sta zitta sul sedile posteriore tra la mamma e la zia, a cui diamo un passaggio fino a Chingombe. La gomma a terra non le fa un baffo.

Più che forata la gomma è tagliata di netto. Colpa del quarzo di queste pietre: le intemperie, invece di arrotondarlo, lo affilano. Questi sassi tagliano come coltelli.

Cambiare il pneumatico in discesa, in bilico tra le rocce, è una specie di acrobazia. L’acrobata è Celestino, autista, meccanico ma anche elettricista e idraulico all’occorrenza. Per lui questa acrobazia è ordinaria amministrazione.

Arriviamo a Chingombe alle quattro e mezza, senza altre interruzioni. Il giorno dopo parleremo con Marcel che ha percorso la stessa strada alcune ore dopo. A lui è andata peggio: di ruote ne ha dovute cambiare due.

SHARE
//