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May 8, 2012
“Exit”: la crisi di coppia secondo Fausto Paravidino
Anna Quinz
Il compito di chiudere la bella e ricca stagione “La Grande Prosa” del Teatro Stabile di Bolzano, è affidato a Fausto Paravidino, autore, regista e attore molto noto al pubblico bolzanino. Dal 10 maggio, fino al 27 il Teatro Studio, ospiterà la prima del suo nuovo lavoro, “Exit”, commedia in tre atti, delicata e divertente, che racconta della crisi di una coppia. Sul palco i bravi Sara Bertelà e Nicola Pannelli (già visto a Bolzano ne “La malattia della famiglia M”, sempre di Paravidino). Abbiamo fatto qualche domanda all’autore, sullo spettacolo, ma soprattutto, sul teatro, secondo lui.
Nella nota di regia allo spettacolo, lei dice “Io copio spesso, così, per cominciare, poi vado avanti come viene”. Si tratta della sua metodologia di lavoro, per la creazione di un nuovo spettacolo?
Io non ho il talento della creazione, che è esclusiva di Dio. Restituisco quello che vedo. Non faccio un quadro, ma la cornice. E lavoro non con la fantasia ma con l’immaginazione. Posso essere ispirato da una conversazione ascoltata su un bus, o dallo spettacolo di qualcun altro. Che può essere uno spettacolo brutto, come sono la maggior parte, e allora mi chiedo in che altro modo potrebbe essere fatto, o uno spettacolo bello, che è un buon punto da cui partire.
Exit parla di una crisi di coppia, in questo caso, da cosa è partito? Esperienze personali?
In realtà, da un’esperienza personale “inversa”. Sono fidanzato da molti anni e il nostro nostro non è un rapporto “litigarello”, dunque – non con la fantasia ma con l’immaginazione – mi sono chiesto: “e se litigassimo (e ci lasciassimo), cosa succederebbe?”. Da qui sono partito.
I personaggi della piéce, si chiamano A, B, C e D, come mai?
Quando scrivo, parto sempre da “A, B, C”, perché non so ancora chi saranno i personaggi. Poi via via, A chiama Filippo, B chiama Paola, e via dicendo. In Exit invece A, B, C e D non hanno, nel corso del lavoro, chiamato nessun nome, e sono rimaste solo le lettere. E ora, si capisce perché: A, B, C e D non sono “così o colà”, non hanno tratti comportamentali specifici, a prescindere dai “regali” che hanno ricevuto dagli attori.
Come definirebbe il suo lavoro? E per chi lo fa?
Per me il teatro deve essere entertainment. Non mi metto, con il mio lavoro, in competizione con il teatro di regia, ma con la discoteca. E come entertainment, il teatro va fatto per lo spettatore, che è qualcuno che mi somiglia, con cui andrei a cena. Uno che non va preso in giro, che viene a teatro per vedere qualcosa che parli alla sua intelligenza, più che alla sua cultura. E che vuole vivere un’esperienza emotiva nella quale si ride e si piange. Come nella vita.
Dunque, qual è lo scopo finale del teatro per lei?
Il teatro, secondo me, serve a rendere la vita più gradevole. Non credo possa ne debba cambiare la società, deve solo farle da specchio ed essere di conforto agli esseri umani, se non sono abbastanza appagati dalla religione o dal gioco del calcio.
Pubblicato su Corriere dell’Alto Adige del 4 maggio 2012
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