La mia Africa #02: il viaggio

La mia Africa #02: il viaggio

E’ vero: viaggiando in aereo si perde la gradualità degli spostamenti lenti. Si decolla in un luogo, si scende in un altro dall’altra parte del mondo e non si ha la minima idea di cosa ci sia tra i due. Ma quando il volo dura molte ore qualcosa si può recuperare, sempre che non ci si faccia completamente assorbire dal rituale aereo: cinture di sicurezza, norme di emergenza, qualcosa da bere, il topico momento del pasto precotto che comunque si finisce per apprezzare, il film, la dormitina per quel che si riesce.

Prima tappa: Dubai. Ci arriviamo in piena notte. Vista dall’alto sembra un videogame d’altri tempi, strisce di luce rossa e blu, puntini gialli in movimento, lampeggianti bianchi. Urbanistica squadrata, studiata a tavolino. Una città inventata in mezzo al buio del deserto. E, quasi per rendere più stridente il contrasto con il nulla intorno, ci hanno costruito un aeroporto di lusso, pieno di marmi, ascensori avveniristiche, luci abbaglianti. E’ enorme e pieno di gente. Sembra che tutta la gente del mondo stia viaggiando in questo preciso istante. Percezione sbagliata: la maggior parte delle persone non prende un aereo in vita sua, popoli interi non sanno cosa sia un aeroporto.

Strani individui mi passano davanti, vestiti nelle fogge più strane. Per un momento penso che abbiano avuto la balzana idea di costruire una sauna in aeroporto: incrocio un tizio coperto da un asciugamano bianco, i piedi infilati nell’infradito. In realtà non è l’unico: ogni tanto ne passa qualcuno. “Devono essere in pellegrinaggio”, dice Luciano. Sarà. Ma quel tessuto spugnoso deve asciugare benissimo.

A pensarci bene, devo sembrare strana anche io: in una città in cui ci sono 23 gradi alle 5 del mattino, sorta in pieno deserto, me ne vado in giro con gli scarponi da montagna. Vaglielo a spiegare che in valigia non ci stavano e quindi li ho indossati!

Lasciamo Dubai ed è mare fino alla punta della Somalia. Sto proprio guardando da finestrino quando passiamo dal mare alla terra. La Somalia sembra un grande deserto. Diverso da quello dell’Arabia Saudita, ma pur sempre deserto. Mi gusto il contrasto tra i colori, caldi sulla terra, freddi nel mare. Da una parte tutti i toni della sabbia, dall’ocra al beige, dal marrone al rossiccio; dall’altra l’azzurro, il blu, il bianco della spuma marina. In comune hanno i riflessi verdi, imparentati all’azzurro e al giallo: percorrono mare e terra come il bordone di un pezzo musicale.

Immersa in un buon libro, indispensabile per far passare un viaggio così lungo, ogni tanto butto l’occhio fuori dal finestrino. Scorrono immagini di una terra sempre diversa, ma ugualmente disabitata. Chilometri e chilometri di spiaggia su cui nessuno è steso, di mare in cui nessuno pesca, di terra senza una casa, senza un branco di animali o qualsiasi cosa riconoscibile da un aereo.  Solo terra. Mi viene da ridere pensando a chi dice che su questo pianeta siamo troppi…

Man mano che scendiamo verso sud, compare la vegetazione. Prima cespugli coraggiosi punteggiano la fetta quadrata di mondo che riesco a vedere, poi le macchie verdi si allargano. Finalmente lo Zambia. Luciano mi chiede di guardare se vedo un lago: dovrebbe essere il lago Tanganika, sulle rive del quale anni fa aveva dato il via ad un’impresa che offriva safari ai turisti. Ha retto per un po’, poi uno dei 4 soci ha rilevato tutte le quote e si è buttato nel più redditizio commercio di pesci. Negli anni 70 l’Africa non era pronta per i turisti. E viceversa.

Al momento di lasciare l’aereo succede una cosa assurda: ci chiedono un’altra volta di mostrare la carta di imbarco, controllata più volte alla partenza. Credono che qualcuno abbia potuto salire in aereo durante il viaggio, come su un treno in corsa?

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