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April 23, 2012

Mare chiuso: “Quell’Italia che amavamo come fosse il nostro paese”

Anna Quinz

VOTO: 9

Amare l’Italia ancora prima di averci messo piede, arrivando dal mare. Amarla perché venendo dalla Libia (e dall’Eritrea o Somalia prima), l’Italia è miraggio di salvezza, di una vita migliore

, di un futuro possibile. Partire, perché non hai altra scelta. Mettersi in mare, in condizioni di fortuna, su un incerto gommone con un incerto capitano, perché il mare è l’unica via di fuga. Ancora a cui aggrapparsi, la speranza. E poi, in mezzo al mare, trovare la fine brusca e violenta dei propri sogni, la fine delle speranze, la fine del viaggio.

Questo è quello che hanno vissuto un gruppo di Eritrei e di Somali, che dalla Libia crudele, sono partiti per l’Italia, ma che molto prima di poggiare un piede nel “Bel Paese”, dall’Italia sono stati rifiutati e ricacciati indietro, verso il massacro e le persecuzioni del governo di Gheddafi. “Mare chiuso”, documentario di Andrea Segre e Stefano Liberti, racconta questo viaggio, racconta le storie di questo gruppo di uomini e donne che in Italia sognavano la salvezza, e che dall’Italia hanno solo avuto un drammatico rifiuto. Storie tragiche e toccanti, che seppur raccontate dai due registi con il doveroso distacco giornalistico, toccano nel profondo e scuotono gli animi. Sopratutto di noi italiani che non avremmo mai voluto sapere che tali mancanze di rispetto della vita e dei diritti umani, sono state perpetrate da nostri concittadini.

La questione è di certo politicamente e socialmente delicata e complessa, era una particolare contingenza storica quella raccontata dal film (la fase di accordo Berlusconi-Gheddafi), ma di certo il problema dell’immigrazione non è risolto, e ancora oggi è tema scottante.

Il documentario raccoglie le testimonianze dei partecipanti a questo viaggio dell’orrore (ora, la maggior parte di loro è “ospite” in un centro ONU in Tunisia, senza sapere quale futuro li aspetta), i loro racconti in prima persona, i video fatti con un telefonino durante la traversata in gommone verso l’Italia. Ogni parola ascoltata è un pugno nello stomaco, ogni volto ripreso un pezzo di autostima nazionale che se ne va. Certo non si può imputare all’Italia tutta e agli italiani tutti questo scempio, ma resta forte la sensazione di vergogna. Un processo a carico del nostro paese, ha però dato ragione alle vittime del respingimento, ma la cifra di 15.000 € sembra davvero piccolo un risarcimento, confrontato con le esperienze vissute. Qualche speranza però, dal film, rimane e nelle scene finali, un uomo che dopo 2 anni e mezzo incontra finalmente la piccola figlia nata in Italia, mentre lui viaggiava dalla Libia alla Tunisia, senza nessuna certezza per il futuro, riempie il cuore. L’orrore non scompare, ma la speranza, ancora una volta, sembra l’ultima a morire.

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