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April 18, 2012

Il mondo degli alpini visto da Nicolò Degiorgis

Anna Quinz

Tra poche settimane, il panorama altoatesino sarà “scombussolato” profondamente dall’avanzata delle penne nere. L’adunata degli alpini in Alto Adige sarà un evento che, nel bene e nel male, non lascerà nessuno indifferente, e di certo verrà ricordato per un bel po’ da tutti, partecipanti e cittadini. In occasione di questo grande evento, alcuni progetti culturali sono partiti, per introdurre la storia e la realtà di questo enorme e orgoglioso corpo dell’esercito italiano. Uno di questi progetti è la mostra, legata anche alla pubblicazione di un libro omonimo “Alpini, un racconto contemporaneo”, che racconta attraverso fotografie e parole (e la bella grafica di Thomas Kronbichler) questo universo ignoto a molti. Perché tutti abbiamo un’immagine dell’”Alpino”, senza però conoscere profondamente principi e valori che lo caratterizzano. Queste foto e questi testi, le prime di Nicolò Degiorgis i secondi di Paolo Bill Valente, costituiranno quindi un moderno “vademecum”, certamente non esaustivo, ma altrettanto certamente innovativo, degli alpini in Alto Adige, attraverso volti e persone, esperienze e attività. Quel che soprattutto colpisce in questo progetto, è la modernità con cui è stato trattato questo mondo spesso visto come un po’ “vecchio stile”: le fotografie di Degiorgis, ma anche l’impaginazione del volume o l’allestimento della mostra, hanno quell’effetto contemporaneo, nuovo, fresco, che di certo non è abituale per alpini e affini, che dunque si troveranno immersi in un’atmosfera nuova, che li pone allo sguardo dell’osservatore in una prospettiva insolita e inattesa. Un buon modo per interpretare questo fenomeno, da un punto di vista che non sia poi facilmente strumentalizzato o banalizzato. E di certo, la scelta delle persone coinvolte è stata, in quest’ottica, la più giusta.

Qualche domanda al fotografo Nicolò Degiorgis.

Come è nato il progetto di mostra e libro “Alpini, un racconto contemporaneo”?

Il dipartimento cultura italiana della provincia, in occasione dell’adunata a Bolzano, voleva organizzare un grande evento per raccontare storie e volti degli alpini in Alto Adige. Tra i progetti c’era la pubblicazione di un libro, così hanno contattato me, per le fotografie, e Paolo Bill Valente, per i testi. Non c’erano indicazioni precise, e da settembre a marzo abbiamo girato in lungo e in largo l’Alto Adige, entrando in contatto con tutti le sezioni ANA del territorio (gli alpini in congedo) e con le caserme dove si trovano gli alpini ancora in attività nell’esercito. Né io né Paolo conoscevamo questo mondo, come molti in Alto Adige, e così senza un piano preciso abbiamo iniziato a documentare le loro attività, e dopo due mesi abbondanti il progetto ha preso corpo e io ho scelto la chiave fotografica dei ritratti, principalmente singoli, tutti scattati durante i loro eventi, per raccontare scene veritiere e non fittizie. Quello che chiedevo era semplicemente di indossare il cappello. Abbiamo documentato anche i loro numerosi eventi e dunque gli scatti raccolti sono moltissimi, ma quello che vedete nel libro e nella mostra è il risultato finale del progetto.

Cosa hai scoperto dell’universo degli alpini, che prima non conoscevi?

Degli alpini ho scoperto soprattutto le tante attività che svolgono, soprattutto i gruppi ANA, che sono molti. Questi alpini in congedo fanno molta attività di volontariato e questa è una cosa molto bella che mi ha colpito. Mentre invece, un punto “a sfavore” dell’esercito è che le caserme sono ambienti davvero molto chiusi. Ho anche scoperto con curiosità gruppi di alpini composti da italiani e tedeschi, come anche degli alpini ladini. Sono stati tutti collaborativi, e devo dire che per come li ho incontrati, mi sono stati simpatici.

Perché hai scelto di fare dei ritratti, invece che foto di gruppo? Quali i tuoi obiettivi fotografici e di contenuto?

Mi è piaciuto questo lavoro di ritratto: io faccio spesso ritratti, ma principalmente per lavori editoriali, mentre in questo caso fare ritratti è stata una mia scelta. Dunque era il primo lavoro documentario che facevo con questo metodo. Io fotografavo praticamente tutti, non c’era criterio iniziale di selezione. La scelta finale delle immagini è stata dettata da criteri estetici, ma a volte anche dal fatto che alcuni ritratti si incastravano bene con le storie raccontate da Paolo. La mia idea comunque era quella di far conoscere gli alpini e il loro mondo, e quello che ci dobbiamo aspettare all’adunata. È uno dei più grandi eventi europei assieme alla Love Parade, e quindi è anche una grande festa, forse non per noi, ma per loro di certo. Gli alpini hanno nel loro DNA questa vena un po’ goliardica, e volevo uscisse dai miei ritratti, perche è davvero un tratto distintivo molto forte.

Il tuo lavoro è in generale di tipo documentario, ma in che modo questo progetto è stato diverso da altri reportage che avevi fatto prima?

Fino ad ora, anche in miei lavori documentari, non mi ero mai concentrato sulla singola persona, e dunque questa è stata senz’altro una diversa modalità di lavoro. Ho scattato quasi tutti i ritratti con il cavalletto, cosa che pone il soggetto in un modo diverso. Anche questa era una condizione che prima non avevo. In generale, la formula del ritratto è comunque per me un modo diverso di lavorare. Mentre l’approccio ai gruppi era quello di sempre.

L’“orgoglio” di essere alpini credo sia una componente fondamentale. L’hai riscontrato, nel momento in cui chiedevi ai tuoi soggetti di mettersi in posa per essere fotografati?

Sì, l’orgoglio di essere alpino l’ho riscontrato, non so se poi dipenda in parte anche dal rapporto che fotografo ha con il proprio soggetto, ma è risultato tutto più facile proprio perché erano alpini. Il cappello conferisce loro uno status più ufficiale, che ha reso i ritratti più semplici rispetto ad altri casi. Più difficili da fotografare, devo ammettere, sono state le donne. Infatti, alla fine, in mostra, c’è una sola foto di un’alpina.

Gli alpini altoatesini che hai incontrato, come si pongono nei confronti del grande evento che sconvolgerà la nostra terra per un week end?

Sono carichi. Non si può generalizzare, certo, ogni gruppo è strutturato in modo diverso, alcuni sono più organizzati altri meno anche in relazione all’adunata, ma in generale c’è molta partecipazione. Sono preparati e felici, per loro è una grande occasione e davvero una grande festa.

Hai incontrato le “vecchie glorie” dei gruppi ANA, ma anche i giovani nelle caserme. Quali le differenze tra alpini giovani e meno giovani?

Molte. È un universo davvero particolare. Una volta facevi la naja per un anno ed eri poi alpino per tutta la vita. Oggi che non c’è più il servizio di leva obbligatorio le cose sono molto cambiate, anche se per tenere alto il numero di alpini, hanno istituito questo corso breve, dopo il quale sei alpino a tutti gli effetti. Poi c’è da dire che nelle caserme gran parte degli alpini sono meridionali, e dunque poi andranno ad appartenere ai gruppi ANA delle loro città d’origine, mentre gli alpini in congedo che abbiamo incontrato, sono autoctoni. Il progetto è incentrato sugli alpini altoatesini, dunque abbiamo incontrato soprattutto persona di qua, anche se qualche ritratto di giovani dell’esercito che non locali è stato fatto.
Gli alpini hanno questa forte ideologia cattolica dell’aiutarsi e aiutare, che portano avanti con attività di volontariato dei gruppi ANA. Si vedrà in futuro se i giovani perpetueranno questi principi. È anche cambiato il fine ultimo del corpo militare degli alpini, che oggi vengono principalmente utilizzati per operazioni di peacekeeping ad esempio in zone di conflitto del  Medio Oriente. Sono quindi preparati in modo molto diverso dagli alpini che noi tutti abbiamo in mente, quelli che verranno in massa all’adunata, che fanno parte per così dire di un’altra storia, quella precedente al crollo del muro di Berlino, per intenderci.

Il tuo lavoro ha delle forti componenti di indagine sociale, che di certo ti segnano anche come individuo, oltre che come professionista. Cosa ti ha lasciato, cosa hai imparato, da questo progetto?

Ho imparato soprattutto a conoscere una parte dell’Alto Adige che non conoscevo. Viaggio molto per lavoro, ma poco nella mia terra. Poi ho scoperto un dialetto che non avevo mai sentito, ed è stato interessante conoscere una parte di popolazione con cui non avevo prima stabilito una relazione particolare. Ho incontrato spesso non altoatesini che poi si sono stabiliti qui ed è stato interessante scoprire questo diverso rapporto con tematiche che sono comuni per noi, come il bilinguismo, che sono da loro viste in modo molto diverso. Sono così varie le combinazioni di persone che si creano qui con soli tre gruppi linguistici più gli immigrati, e questo lavoro mi ha fatto conoscere molte di queste combinazioni con cui prima non ero mai entrato in relazione.

La mostra inaugura questa sera alle 19 al Centro Trevi, introdotta da un’esibizione della banda Mascagni. Il volume sarà a disposizione del pubblico, gratuitamente. Seguiranno poi, da qui, all’adunata, diversi altri progetti del dipartimento cultura italiana.

 

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