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April 11, 2012

Diario di viaggio: perdersi a Istanbul

Marco Pontoni

Il desiderio di perdersi, di non essere nient’altro che l’ombra che si proietta sul muro, per un breve istante. Una città sconosciuta. Senza una guida, una mappa, un incrocio di coordinate su cui pianificare un itinerario..

Oltre Aghia Sofia, che fronteggia l’imponente Moschea Blu, il Topkapi alle sue spalle, il Corno d’Oro che sfocia nel Bosforo. Oltre il Gran Bazaar con le sue seduzioni, il labirinto delle sue strade coperte, i suoi caffè dove sostare, città nella città, scuro antro mercantile, splendente delle sue merci. Oltre la moschea di Solimano, elegante e bellissima.

Continuando a camminare, lasciandosi alle spalle Eminönü, monumenti e minareti. Spariscono le tracce del turismo organizzato. Donne a capo coperto, il perfetto ovale del viso, altre del tutto oscurate alla vista, tranne una fessura da cui far filtrare lo sguardo indagatore. Il mercato, chioschi e odori, il canto del muezzin, gente gentile che non fa caso alla mia macchina fotografica. Impercettibilmente, il quartiere di Fatih, considerato uno dei più “conservatori” di Istanbul, oggi dimora di molti immigrati provenienti dall’Anatolia, lascia il posto a Fener, il vecchio avamposto greco. Case fatiscenti accanto ad altre più moderne, ma già consumate, il legno e il cemento, bovindi a complicare la geometria delle facciate, panni stesi, bambini che giocano a pallone o tornano da scuola. Potrebbe essere Genova, potrebbe essere l’Alfama, potrebbe essere un’altra città di mare, il riverbero del sole sulle acque che esplode in fondo alla prospettiva di un vicolo. Sopra i tetti, all’improvviso, la mole rossa, imponente, del Rum Lisesi, il liceo greco ortodosso.

Si riprende a scendere, con molte deviazioni, verso il fiume, verso il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, questa città ha visto molte culture convivere, molti eserciti metterla al sacco. Balat è lo storico quartiere ebraico, i pochi ebrei rimasti si sono trasferiti altrove, oltre il fiume, nel quartiere di Galata, dominato dalla sua torre circolare, che è stata faro, prigione, sentinella del Bosforo. Balat oggi è un altro quartiere povero, di una povertà benigna, rassicurante. Che fa sentire a casa.

Salendo verso il limite della città, verso il confine delle antiche mura, la chiesa bizantina di San Salvatore in Chora, o Kariye Müzesi, con i suoi  mosaici stupefacenti, i suoi affreschi. Il rumore della città è lontano, è lì sotto, nella selva dei tetti e delle paraboliche, nelle macchine che si cercano la loro strada nell’intrico dei vicoli, nel richiamo del lustrascarpe.

Il cielo è azzurro-camicia. Sono quattro giorni che non parlo con nessuno, a parte il proprietario dell’albergo in cui faccio ritorno la sera, un’antica casa ottomana ristrutturata.  La solitudine perfetta. La perfetta sensazione che tutto potrebbe succedere, adesso, qualcosa, di buffo, tragico, banale. Qualcosa di niente.

Fra poco è l’ora della preghiera. I cortili delle moschee sono ospitali anche con chi non crede.

 

Nota: Marco Pontoni, giornalista e fotografo amatoriale, vive a Trento. Fino a maggio è presente con le sue foto nell’atrio dell’auditorium Santa Chiara di Trento, nell’ambito della mostra “Africa da Nobel-volti che sfidano i deserti”. Successivamente la mostra sarà al Bookique di Trento. Ha pubblicato il romanzo “Music Box” (Curcu&Genovese) e con il fotografo Massimo Zarucco “Mozambico, l’orgoglio di un popolo” (Valentina Trentini-Artimedia).

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