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March 24, 2012

Il Grande Dittatore secondo Brecht

Jimmy Milanese

Il lavoro sul palco è immenso, e si vede. Infatti, il testo di Bertolt Brecht «La resistibile ascesa di Arturo Ui», non completato dal suo autore e scaturito da un impeto di rabbia contro il regime nazista che lo aveva costretto all’esilio, non è sicuramente da considerare un capolavoro. Ci vuole tutta la bravura della Compagnia teatrale di Umberto Orsini per cavare da quel canovaccio, uno tra i migliori dieci spettacoli teatrali visti negli ultimi dieci anni.

Il teatro è un’arte collettiva con una storia millenaria, nel quale ognuno ha la sua importanza indispensabile, indivisibile: come in un quadro, dove ogni riga, segno o sfumatura ha la sua precisa funzione nell’opera. Il teatro, e con esso l’attore teatrale, è rimasto l’unico avamposto della memoria e della lingua, ormai ridotta a uno straccio unto dalle continue perdite di carburante. Nell’era dove tutti possono esprimersi su tutto e dove i movimenti d’opinione nascono sugli errori di sintassi e di logica induttiva, uno dei massimi esponenti del teatro italiano contemporaneo, Umberto Orsini, rivisita in punta di penna un soggetto poco frequentato. L’inettitudine del popolo e il suo immobilismo espressivo di fronte all’ascesa di un uomo politico capace di sfruttare le falle di un sistema. Quel «bug» nel sistema può essere interno alla Repubblica di Weimar, oppure può svilupparsi in quegli anfratti della società contemporanea, modellati dalla crisi del liberismo economico.

Nel suo lavoro di riscrittura, Orsini investiga a fondo due registri comunicativi. In primo luogo, la similitudine tra l’ascesa della malavita italo-americana nella Chicago degli anni trenta e quella del nazionalsocialismo in Germania. In secondo luogo, spinge l’acceleratore sul contenuto ironico insito nella figura di Arturo Ui (ovvero, Hitler): il Re dei cavolfiori che a forza di corruzioni e minacce riesce a controllare il mercato ortofrutticolo delle città di Chicago (si legge Germania) e Cicero (s’intende Austria). L’Anschluss attraverso il quale Adolf Hitler riunì la teutonica razza ariana sotto Berlino, in Arturo Ui prende le forme di un mercato ortofrutticolo sotto il controllo dei gangster di Chicago. Il riferimento esplicito ad Al Capone è palese.

L’Arturo Ui di Orsini è un’opera che scava nel passato, come presumibilmente fece l’esule Brecht nel corso di quelle tre settimane del 1940 ad Helsinki, in attesa del visto per gli Stati Uniti. I momenti in cui la regia supera i «bug» della sceneggiatura sono notevoli. La scena della fioreria è un classico, che in terra germanofona coma la nostra assume un significato più potente di quello che potrebbe suscitare nel resto della penisola italiana. Infatti, la scena parodizza il «Faust» di Goethe nel giardino di Martha. Là troviamo Faust e Margherita da una parte, Mefistofele e Martha dall’altra, apparire e scomparire tra alberi e siepi, incrociando i propri discorsi in una sequenza celebre dell’opera di Goethe. Nella fioreria di Givola (che sta per Goebbels, il potente ministro della propaganda nazista), braccio destro di Arturo Ui, troviamo lo stesso Arturo Ui assieme alla bella Miss Dullfeet, moglie del Sindaco di Cicero, ovvero Miss Dolfuss, moglie del cancelliere austriaco Dolfuss, assassinato dai sicari di Hitler in quanto contrario all’unificazione dell’Austria con la Germania.  Successivamente, arrivano Givola e Ignazio Dullfeet (che sta per il cancelliere austriaco Dolfuss). In quella fioreria Givola compie l’assassinio che spalanca le porte dell’Impero al dittatore, davanti a un popolo inerme, che non può fare altro se non acclamare il suo nuovo sovrano. Brecht indica in Givola – e non in Arturo Ui – la vera figura mefistofelica, ovvero lucifera, demoniaca e zoppa come il diavolo. Orsini costruisce quel momento essenziale della storia europea del Novecento e del testo brechtiano, in modo simile a come Francis Ford Coppola decide di eliminare Vito Corleone dal suo Padrino: in un orticello che abbisogna di acqua per non morire e nel quale le nuove e più sanguinarie leve mafiose crescono.

A differenza di Brecht, ma seguendone comunque gli appunti di scena, l’Arturo Ui di Orsini è  musicato. Una serie di canzoncine che al tempo di Brecht erano proibite dal regime. La nota «Ballata di Mackie Messer» dell’«Opera da tre soldi» nell’ Arturo Ui diventa il «Moritat». Nel momento in cui il Reichstag viene incendiato, si canta quel «Moritat», ovvero una canzone che nel basso medioevo nordeuropeo descriveva una imminente sciagura atroce. Poi c’è Chopin e, soprattutto, il Givola di Luca Micheletti, sul quale vale la pena soffermarsi e che, da solo, giustifica la nostra presenza in sala. Già il cast è stellare, come raramente accade e Micheletti proviene da una famiglia di attori che bazzica il palco da metà ottocento. Egli sembra trasferire all’interno del proprio corpo i suoi studi e tutto il meglio della genealogia familiare. Decisivo il suo contributo alla stesura della sceneggiatura.

Seppure in modo assai confuso e discusso, nei suoi scritti Brecht sosteneva che in teatro bisognasse mostrare il personaggio tenendolo a distanza, come per indicarlo al pubblico. Micheletti e tutti gli altri protagonisti, nessuno escluso, ci indicano in modo sfacciato la vera essenza del male, che sta in colui il quale azzanna i calcagni del potere per finire col nutrirsi delle sue carogne. Imperdibile!

Infine, dietro a tutto e tutti c’è sempre Brecht. Esiliato dalla sua madrepatria, cacciato dagli Stati Uniti per via di quel suo lezzo comunista, rifugiato a Berlino Est, dove promuove con difficoltà il teatro, egli muore in perfetta solitudine. La lezione del drammaturgo dei tre soldi sembra irricevibile a quegli schizzinosi che non hanno voglia di mettere le mani all’interno delle loro idee fossilizzate e decretate fallite in varia guisa dalla storia. Arturo Ui è un prodotto della società, non vive al di fuori di essa. Arturo Ui è il prodotto della società che discrimina ipotizzando una superiorità di razza, specie, religione, condizione economica o intellettuale. Arturo Ui è quella parte dell’essere umano che rifiuta la convivenza e il confronto con l’altra parte della specie umana che non condivide le sue idee. Alla fine, si riconosce più nei baffetti mozzati di Hitler piuttosto che nei baffetti appuntiti di Stalin, ma il risultato non cambia di molto.

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