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March 15, 2012

Abbiamo bisogno di giustizia come dell’aria per respirare

Luca Sticcotti

Ha un vissuto terribile da raccontare ed ha intentato un processo contro uno stato europeo, complice di un massacro. Si chiama Hasan Nuhanovic ed è un bosniaco di etnia musulmana. In questi giorni è a Bolzano su invito della Fondazione Alexander Langer per spiegare come la ricostruzione di quello che avvenne a Srebrenica nel 1995 potrebbe consentire alla comunità internazionale di fare un importante passo in avanti nella propria capacità di difendere popolazioni minacciate di genocidio.
Lo abbiamo incontrato e gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua storia.

Non sono nato a Srebrenica, anche se lì ho vissuto per un po’ da ragazzo. Nel 1992, quando iniziarono il conflitto e la pulizia etnica, la mia famiglia che viveva a Tuzla decise di scappare in montagna. Si rivelò purtroppo una pessima idea: mio padre pensava che il conflitto avrebbe avuto il suo epicentro nelle città più grandi, dove vi erano caserme ed armi. Aveva senz’altro paura che io e mio fratello potessimo essere reclutati e mandati al fronte. La città di Tuzla rimase sotto assedio per tre anni, ma lì non ebbe luogo la pulizia etnica perché la linea del fronte a Tuzla rimase stabile. Nella città capoluogo confluirono moltissimi bosgnacchi (bosniaci di etnia musulmana) e la città organizzò la sua difesa. Quelli che invece si erano rifugiati in montagna, come la mia famiglia, col tempo si trovarono isolati, perché con il tempo i serbi hanno preso in mano la situazione occupando la maggior parte del territorio e delle linee di comunicazione. Ci ritrovammo a Srebrenica, intrappolati.
Ad un certo punto i generali serbi che non riuscivano a prendere Tuzla decisero intanto di fare pulizia della popolazione musulmana nei centri più piccoli che erano rimasti isolati e molto meno difesi.
Tuzla e Sarajevo non poterono aiutare quelli che si trovavano in questi piccoli centri.
Srebrenica assediata venne in sostanza abbandonata a sé stessa. Nessuno di noi voleva combattere ma non potevamo nemmeno scappare, perché eravamo circondati.
Srebrenica in origine aveva tante analogie con Merano: 35mila abitanti, una composizione etnica mista, 40 km di distanza dal capoluogo della provincia. A piedi avremmo potuto raggiungere Tuzla in 2 giorni, ma era impossibile perché tutta la zona era pattugliata dai serbi.

A Srebrenica non era presente nessuna difesa armata?
Nel 1992 non esisteva un esercito bosniaco e quando in maggio venne dichiarato lo stato di guerra erano già stati ammazzati migliaia di bosniaci perché la polizia etnica partì subito. Un po’ alla volta però anche Bosnia si formò un esercito popolare, una sorta di resistenza. I Serbi oggi dicono che i bosgnacchi vennero armati dall’Arabia Saudita, ma questo non corrisponde al vero. Se fosse stato davvero così i bosniaci musulmani si sarebbero difesi e i serbi avrebbero perso la guerra.

Come si formarono le cosiddette “enclave musulmane”?
La pulizia etnica provocava una fuga generalizzata e la gente finiva per comprimersi alcune località dove ad un certo la densità dei profughi era tale da saturarle completamente. Nelle enclave si manifestarono anche le pire forme di resistenza armata, una sorta di reazione naturale alla grande pressione a cui era sottoposta la popolazione. Fu così si iniziarono a manifestare anche vere e proprie azioni militari volte a tentare la rottura dell’accerchiamento.
La prima cosa che fecero i serbi fu di tagliare l’energia elettrica. Per 3 anni e mezzo restammo al buio ma anche senza acqua. La gente si scavava i pozzi in giardino. E non avevamo niente da mangiare. L’alto commissariato ONU per i rifugiati cercò più volte di mandare degli aiuti ma i serbi non li lasciarono passare. Nell’aprile del 1993 si scatenò il panico perché sembrò che i serbi stessero per sferrare l’attacco definitivo. Se fosse successo in quel momento ci sarebbe stato un massacro ancora più grande di quello che avvenne poi. Sta di fatto che le Nazioni Unite nel 1993 promulgarono la risoluzione 819 che dichiarò Srebrenica zona protetta.
Il giorno stesso smisero gli scontri a fuoco. La cosa ci stupì molto e ci mettemmo un mese a rilassarci un po’. Arrivò poi il primo battaglione canadese di 200 caschi blu. Erano soldati professionisti veramente pronti ad onorare il mandato di proteggere la popolazione civile, sparando magari anche contro i serbi. Diverse volte lo fecero.

In città riuscivate a vivere un barlume di vita normale?
Era impossibile: non funzionava nulla. Eravamo felici di essere vivi. Fu in quel momento che i media internazionali incominciarono a chiamare quella zona enclave musulmana.

Era una forzatura?
Sì. In origine Srebenica era tutt’altro che una enclave, lo divenne a causa della pulizia etnica. A livello di opinione pubblica internazionale si diffuse subito l’idea dell’enclave musulmana con una connotazione negativa, come se fossimo tutti terroristi palestinesi. Come se fosse Srebreniza fosse un’enclave musulmana in Serbia. Non era così: la Bosnia era sempre stato un territorio a maggioranza musulmana dove però vivevano persone di etnia serba.
In ogni caso Dopo la svolta del ’93 siamo avanti così per 2 anni, sempre assediati. Poi i canadesi se ne andarono e a febbraio ’94 il loro posto venne preso dagli olandesi. Erano in 600; avevano attrezzature migliori e una base molto più grande. Ma fecero un pessimo lavoro.

In che senso?
Ebbero un atteggiamento passivo, o meglio un atteggiamento attivo ma nella direzione sbagliata. Quando nel ’95 iniziò l’attacco finale gli olandesi avevano quasi più paura dei resistenti armati bosgnacchi che dei serbi. Si capiva che per loro era normale che i serbi facessero azioni militari. Per loro invece era strano vedere un centinaio di musulmani armati che cercavano di difendere la linea.
La difesa della zona protetta l’avrebbero dovuta fare gli olandesi. Che invece non spararono mai quando i serbi attaccarono.

Perché scelsero di non intervenire?
Ancora oggi non lo sappiamo. Ci sono varie interpretazioni di quello che avvenne.
Una spiegazione è legata alle regole d’ingaggio. Qualcuno ancora oggi dice che l’ONU può sparare solo se deve difendere sé stesso da una attacco. Nella risoluzione però c’era scritto che in caso di aggressione alla zona protetta le nazioni unite avevano anche il diritto di utilizzare le forze aeree.
Il comandante delle nazioni unite in ex Jogoslavia era il generale francese Janvier. Gli aerei non partirono mai dalla base di Aviano perché gli olandesi non non ne chiesero l’intervento. Questa è la versione francese.
Nei report olandesi c’è invece scritto che non avevano potuto sparare perché non avevano la copertura aerea e non erano attrezzati per fare una guerra.
Poi successe che quando partì l’operazione serba ed iniziarono gli scontri, alcune decine di olandesi si consegnarono ai serbi. Pensavano probabilmente che sarebbero stati più al sicuro da quella parte. Quando però partirono effettivamente gli aerei da Aviano il generale Mladic disse agli olandesi che avrebbe ammazzato i caschi blu che erano passati dalla loro parte. Questa è la storia militare. Gli olandesi non sono gli unici responsabili di quello che accadde a Srebrenica ma è invece esclusivamente colpa loro quello che accadde nella loro base.

Lì cosa avvenne?
C’erano 6.000 persone rifugiate. Avrebbero dovuto tenerle lì. I serbi non sarebbero mai entrati in quella base. E invece gli olandesi mandarono via tutti, diventando complici del crimine di guerra. Il tribunale dell’Aia ha ricostruito il massacro minuto per minuto; avvenne tutto tra il 13 e il19 luglio. I serbi radunarono tutti e li massacrarono. Un’esecuzione di massa di 8.000 persone. I soldati ricevevano un premio di 2 euro e mezzo per ogni persona uccisa ed alla fine a furia di schiacciare il grilletto avevano le dita delle mani bloccate e doloranti.

Come ha fatto sopravvivere?
Ero perfettamente consapevole di quello che stava succedendo e pensavo che non sarei uscito vivo da lì. Pensavamo che ci avrebbero ammazzati tutti. Io però ero dipendente delle Nazioni Unite e gli olandesi presentarono ai serbi una lista dei dipendenti locali. Venni risparmiato ma davanti ai miei occhi vennero cacciati gli altri componenti della mia famiglia.
All’interno della base i dipendenti sapevano tutto. Nella base c’era un distaccamento dei Medici senza Frontiere e loro avevano fatto dei report dicendo che davanti alla base stavano massacrando la gente. Lo dissero al comandante degli olandesi ma lui disse che non era vero.

Secondo lei sarà possibile ottenere giustizia?
Noi continuiamo a vivere in Bosnia e prima o poi bisognerà affrontare la questione di quello che è successo. Siamo ancora agli inizi, quella che abbiamo più che pace è un’assenza di guerra.
E il processo contro gli olandesi a cosa potrà portare?
Noi abbiamo bisogno di giustizia come dell’acqua e dell’aria. Non solo: abbiamo bisogno di una garanzia di giustizia. Le conseguenze che ci saranno se sarà confermata la sentenza in ultimo grado non dipendono da me. Io desidererei che venisse rivisto tutto il ruolo che i caschi blu possono giocare in queste situazioni di conflitto, con regole più chiare e non soggette a “interpretazioni”.

 

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